L’indagine è di alcuni studiosi del CNR di Pisa, dell’Università di Brescia e di quella di CàFoscari, e in un certo senso smonta diversi luoghi comuni sulle fake news e soprattutto sull’impatto sull’opinione pubblica.
Dall’esame di quasi 400 mila tweet di 863 utenti europei e americani postati su Twitter tra il 28 febbraio e il 22 maggio 2019, prima delle elezioni europee, risulta infatti che quelli fake erano in realtà molto pochi: 24.331 i tweet su 399.982 pari al 6,1% e 45 gli utenti su 863.
Ma soprattutto erano ancora di meno, in proporzione, i retweet: 4.375 su 89.350, ovvero il 4,8%. Vediamo numeri e percentuali delle citazioni: 12.927 su 226.029, cioè il 5,7% di cui erano protagonisti.
Sono relativamente di più le risposte: 2.640 su 29.640 pari all’8,9%. Ma in questo caso potrebbe non essere un segnale necessariamente positivo. A differenza dei retweet, che è più probabile siano fatti dai sostenitori, le risposte e i commenti sono molto spesso negativi.
In sostanza vuol dire che chi diffondeva fake news nel periodo precedente alle elezioni europee veniva considerato molto meno degli altri utenti. Meno per esempio degli account ufficiali, principalmente di news, che sono quelli che hanno twittato e che sono stati retwittati più di tutti, meno dei politici o anche dei VIP del mondo dello sport e dello show business.
Le fake news si autocitano, molto basso l’engagement
Una ulteriore conferma delle conclusioni degli studiosi viene dall’analisi della provenienza e della destinazione dei collegamenti diretti (retweet, citazioni, repliche) e indiretti (la citazione di un articolo in cui è menzionato un altro tweet).
Sostanzialmente emerge che gli account che diffondevano fake news citavano quasi solo loro stessi, quando facevano collegamenti esterni (outgoing) diretti, mentre se consideriamo anche quelli indiretti prevalevano i link con tweet di politici, da cui però non erano ricambiati.
Il dato più importante infatti è quello sui collegamenti in entrata (incoming). Sostanzialmente nessuno si “filava” gli account di fake news, che venivano citati o ricevevano interazioni solo da altri account fake, sia se consideriamo collegamenti diretti che indiretti.
Al contrario di quanto accadeva con gli account politici che ricevevano retweet e interazioni anche da parte di account ufficiali di news che diventavano anzi la maggioranza dei collegamenti in entrata se consideriamo anche quelli indiretti.
Le fake news non sono riuscite quindi a infiltrarsi nella comunicazione dei media nè in quella dei politici, da cui gli account che le diffondevano sono rimasti tagliati fuori. I politici interagivano con le news e viceversa principalmente, non con altri.
Gli account di disinformazione si sono dimostrati quindi poco efficienti, e ciò emerge anche dall’analisi dell’engagement in proporzione ai follower.
Si paragona l’engagement degli account di news ufficiali, dei politici, dei VIP, degli sportivi, con quelli dei diffusori di disinformazione.
L’engagement degli account ufficiali è stato decisamente più alto, quello dei politici diventava maggiore quanto più crescevano i follower, come succedeva negli altri casi.
Gli account fake andavano meglio solo quando avevano pochi follower, ovvero quando rappresentavano una nicchia molto attiva che però non riusciva ad espandersi.
Sostanzialmente lo studio ci dice che l’allarme generato dall’influenza delle fake news, in particolare in concomitanza con elezioni, è largamente ingiustificato.
Non solo è difficile spesso definire come fake news alcune notizie, e in questi anni si è fatto un uso anche improprio di questa definizione, come ha sottolineato il professor Quattrociocchi, uno degli studiosi che ha lavorato alla ricerca, in questa esclusiva intervista rilasciata a Termometro Politico ma anche quando si individuano account di disinformazione la loro efficienza nell’influenzare il dibattito politico è veramente bassa.
Insomma, la notizia è che se i partiti vincono o perdono le elezioni è in gran parte merito o colpa propria: questo a molti può non fare piacere.
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