A porte chiuse: l’inferno di Jean-Paul Sartre. Un’analisi sull’opera
Nel maggio del 1944, andava in scena per la prima volta a Parigi A porte chiuse (o anche Porta chiusa), un’opera per il teatro composta da Jean-Paul Sartre (1905-1980), filosofo e scrittore francese. Il dramma, rappresentato in un atto unico diviso in cinque scene, ha avuto larga risonanza nella letteratura, nel teatro e nel cinema europei. Del testo, traboccante di passaggi degni di considerazione, ciò che più ha impressionato e che continua a colpire i lettori e gli spettatori è senza dubbio l’affermazione pronunciata da uno dei tre protagonisti: “L’inferno sono gli altri”. Questa frase ha avuto un successo tale da guadagnarsi a poco a poco un’esistenza indipendente rispetto al resto dell’opera; in altre parole, essa è stata più volte fraintesa quanto al suo significato.
Sartre stesso sentì ben presto l’esigenza di spiegarne il senso, ammettendo che la sua opera era caduta vittima di malintesi specialmente per via di quella frase. Sicuramente, a sfavore della chiarezza immediata aveva giocato il carattere di massima che l’enunciato assume inevitabilmente, in conseguenza della situazione e dell’andamento del dramma. Difatti, l’equivalenza stabilita tra il luogo della dannazione eterna e le relazioni sociali non emerge come possibilità, ma come conclusione generale, cui si giunge verso la fine.
L’inferno sartriano e la vita senza tagli
I protagonisti dell’inferno sartriano sono tre: Inès, Estelle e Garcin. Coerentemente alla situazione dei dannati nell’inferno cristiano, nell’opera sartriana non vi è possibilità di purificazione; ciò si traduce direttamente nell’inazione dei personaggi e nell’assenza di veri e propri punti di svolta della trama.
Si verifica la situazione descritta da Garcin come vita senza tagli: chiusi in una stanza, dove non esistono più il giorno e la notte, i condannati non hanno modo di riposare né dagli altri né da sé stessi, neanche per un momento… Neppure per l’attimo di un battito di ciglia. Garcin deve perciò constatare con angoscia: “Niente palpebre, niente sonno, è un tutt’uno. Ma come farò a sopportarmi? Io ho un carattere molesto, e pensi un po’… ho l’abitudine di molestarmi. Ma io non posso molestarmi senza sosta. Laggiù, almeno, c’erano le notti. Avevo il sonno pesante. Per compensazione”.
Le molestie, in verità, saranno perlopiù reciproche. Nella confessione delle azioni peccaminose, ciascuno diventa insieme accusatore, oppressore e vittima degli altri. Garcin può quindi osservare: “Così è questo l’inferno. Non l’avrei mai pensato… Vi ricordate: lo zolfo, il fuoco, la graticola… Ah, che sciocchezze. Nessuna graticola: l’inferno sono gli Altri”.
A rappresentare la dimensione infernale di soggezione e di dipendenza dal giudizio altrui sono soprattutto Estelle e Garcin. Entrambi, convinti di trovare la salvezza solo in qualcuno che li reputi incolpevoli, si mostrano manipolabili e incapaci di decidere. La prima confessa di avere un’ossessione per gli specchi, in particolare ella deve potersi guardare se altri la guardano, per vedere esattamente ciò che vedono di lei. Il secondo rinuncia a uscire dalla stanza, dopo aver sbloccato la porta, solo per ottenere il giudizio positivo di Ines, giudizio che egli stima più caro della propria persona.
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Gli altri, l’inferno, la libertà
Nel saggio Un teatro di situazioni, del 1973, Sartre rendeva pubblici i motivi che lo avevano spinto a comporre l’opera, presentando in primo luogo una ragione occasionale: la volontà di tenere sempre in scena tutti gli attori, suoi amici, dando loro uguale spazio. Così, spiegava Sartre: “È lì che mi è venuta l’idea di metterli all’inferno e di fare in modo che ciascuno fosse il carnefice degli altri due”. Riguardo al modo in cui questo potesse avvenire, egli precisava: “Ho voluto dire: ‘l’inferno, sono gli altri’. Ma è sempre stato frainteso. Si è pensato che volessi dire che le nostre relazioni con gli altri sono sempre avvelenate, che si tratta sempre di rapporti infernali”.
L’intento, dunque, non era lasciare trasparire il lato perverso implicito in ogni rapporto, giacché non è l’altro tout court, o non è il solo dover stare in mezzo agli altri, ad aprire la strada per l’inferno. Quello che Sartre voleva esprimere non era né l’amara percezione di una condanna generalizzata, né una forma di pessimismo rivolto alla vita sociale.
Per Sartre, l’inferno è lo stato di chi, incapace di spingersi oltre se stesso, si trova avviluppato nelle proprie azioni e nelle proprie abitudini; o lo stato di chi, non sapendo riconoscersi oltre lo sguardo (cioè il giudizio) degli altri, resta imprigionato in un nesso di colpevolezza e sofferenza a cui egli stesso ha acconsentito di sottostare. L’inferno sono gli altri, solo se gli altri rappresentano l’unico punto di vista che assumiamo per giudicare di noi stessi; esso è in primo luogo il tormento e la tortura di una presenza che non sappiamo mettere da parte.
Scrive Sartre: “Quando cerchiamo di conoscerci, in fondo noi utilizziamo quelle conoscenze che gli altri hanno già di noi. Noi ci giudichiamo con i mezzi che gli altri hanno e ci hanno dato per giudicarci. Qualsiasi cosa io dica su di me, c’è sempre dentro il giudizio degli altri. Ciò significa che, se i miei rapporti sono cattivi, allora davvero sono all’inferno.”
L’inferno presuppone la fine della vita; nel dramma, anche la morte sta per una particolare condizione: quella di chi può tutt’al più guardare al passato; difatti, per i tre protagonisti il tempo è scandito dal prima della vita ormai passata, senza possibilità di proiettare l’esistenza in un dopo. La morte simboleggia la stasi, la condizione del non poter più fare ed essere altro. Alla mancanza di possibilità corrisponde l’assenza di altro tempo, ma quest’assenza non riguarda solo la morte in senso proprio. Estelle stessa lo fa intendere, quando dice: “Mi pare che non siamo mai stati tanto vivi”.
Nel suo saggio, Sartre concludeva: “Molte persone sono incrostate in abitudini e comportamenti che esse stesse disprezzano, ma che non cercano nemmeno di provare a cambiare. In questo senso non possono rompere la gabbia delle loro problematiche, delle loro preoccupazioni, dei loro comportamenti, e sono spesso vittime di giudizi espressi da altri su di loro. Ho voluto mostrare, per assurdo, l’importanza della nostra libertà. Vorrei che questo venisse ricordato quando sentirete dire: l’inferno, sono gli altri”.
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