Quando nel 1986 una pubblicità raccontò il sogno italiano e distrusse quello americano
Nel 1986 lo scontro ideologico tra Occidente e URSS si gioca in ogni campo, in ogni istante della vita di tutti i giorni. Letteratura, cinema, moda diffondono l’immagine del self made man americano come unico modello di vita, lo yuppie in carriera cantato da Luca Barbarossa. Il sogno americano esportato è una rivoluzione culturale; trasforma il mondo in un pasticcio complicato, spietato, caotico, grigio e dopato, in cui vincere e “funzionare” è obbligatorio e chi non ci riesce viene considerato alla stregua di un paria da evitare e schifare. Ogni cosa dev’essere “troppo giusta”, dalla marca della camicia alla località di villeggiatura. È questa mentalità da legge della giungla che spinge chi non ce la fa tra le braccia della droga, che fa morti a palate.
Gli yuppie della prima ondata, intanto, hanno messo su famiglia
Avere dei figli cambia le priorità e l’approccio al mondo. Distruggono status symbol, scrivono sulla carta da parati pregiata, incidono sulle boiserie, sono deboli, indifesi, ingenui, ti obbligano a ricalcolare ogni minuto libero della tua vita, ma sono anche la cosa più importante. Così gli yuppie senior si trovano in ufficio dei giovani che vogliono far loro le scarpe, e a casa dei frugoletti che non vedono mai. Per mantenere il sogno americano tornano a casa coi bambini già a letto e li vedono per venti minuti nello specchietto retrovisore mentre li portano a scuola, o a pranzo nel fine settimana.
A questo si aggiunge il mondo esterno che si rivela ostile.
Negli anni ’80 ogni anno avvengono 70 sequestri di persona; spesso sono bambini e altrettanto spesso non finiscono bene. Sono cose che Wall street di Gordon Gekko non racconta: dietro calici di champagne, durante i ricevimenti negli appartamenti dei colleghi ci sono famiglie di quasi estranei, vecchi genitori abbandonati nel paesino di provincia o nascosti in qualche ospizio. È il sogno americano, e per inseguirlo gli italiani si aggrappano a una speranza che non sanno mettere in parole o immagini, ma li consuma.
Nel 1986, la Barilla fa uscire uno spot destinato a fare la Storia
Parte con un oboe, note gelide e scarne. Siamo in una qualsiasi città italiana di provincia, l’autista di un furgoncino carica in fretta i bambini usciti da scuola e parte sotto la pioggia. Dall’androne esce una bambina con treccine e impermeabile giallo, ma è troppo tardi. Lei guarda il cielo grigio, poi si incammina a piedi. Stacco. Una donna, in camicia di flanella a quadri azzurri, è in una casa tra legno, tende bianche e piantine; sta china a fare non sappiamo cosa. La melodia termina e riparte con gli archi, che circondano l’oboe come gli edifici ottocenteschi grigi e imponenti circondano la bimba, puntino giallo coraggioso.
A casa, la donna taglia degli asparagi e guarda l’orologio.
La bimba per strada salta le pozzanghere e si fa forza, accompagnata dalla melodia che riparte ogni volta più epica fino alla pausa: vediamo la mano della donna prendere un pacco di pasta, poi un gattino grigio e fradicio rannicchiato contro lo stipite di un portone. La bimba si ferma; la melodia riparte, ma adesso entrano i fiati. La bimba raccoglie il gattino e se lo infila dentro l’impermeabile giallo. L’immagine sfuma e si sovrappone a un mestolo di pasta gialla. Il padre torna a casa sorridente, il sorriso crolla appena la madre gli mostra l’orologio; guardano fuori dalla finestra e la bimba appare con il gattino. A lui danno un piatto di latte, perché è diventato parte della famiglia.
Scritta in sovrimpressione:
Quello spot stabilisce un prima e un dopo, nel nostro paese
È cinema puro nella narrativa visiva – il gatto grigio è lo yuppie del 1986 – e in quella musicale; Hymne, composta da Vangelis, è un continuo crescendo sulle note che al termine fa una pausa e riparte con più enfasi finché all’ultimo, giunto all’apice, si ferma e ripercorre le note al contrario; come un uomo di successo che all’improvviso si ricorda di cosa c’è d’importante alle sue spalle.
All’improvviso la società italiana con ambizioni cosmopolite da jet set internazionale capisce cosa vuole davvero: tornare a casa dalla sua famiglia. Rispetto a quello del 1984, questo spot è un successo che va oltre l’immaginabile; diventa un’icona, è citata ovunque, mentre la gente s’affretta a comprare quel marchio perché vuole prendere un pezzo di quell’atmosfera, di quel sogno italiano così piccolo, provinciale, ingenuo e concreto.
In azienda capiscono di aver trovato l’oro e replicano a piena potenza. Se nel primo spot viviamo l’Odissea, nel secondo ci risvegliamo a Itaca; forse senza quella bambina in impermeabile giallo di quattro anni prima non avrebbe funzionato, ma di sicuro nel 1990, caduto il muro di Berlino, con ideali e ideologie ancora più frenetiche e confuse, ora l’ex yuppie è ancora più innamorato di quell’idea piccola e sublime di pace e tranquillità. Ha capito che tutto l’inferno in abito grigio lo passi per guardare tuo figlio che dorme.
Così arriva il capolavoro
Nel secondo spot c’è il ritratto di una famiglia: il padre giornalista basta guardarlo per sentire profumo di centrosinistra gauche caviar. Giovane e dinamico, ma con quell’aria di superiorità intellettuale che deve guidare il paese e informarlo. I figli sono un maschietto già con la sua bella cravatta, simbolo del passaggio del testimone, e la femmina è un cespuglietto di boccoli biondi e innocenti davanti ai mali del mondo.
Il nonno è l’iconografia più smaccata: bloccato dal peso del tempo (una grossa pendola in mano) non riesce a muoversi nel mondo moderno. La mamma ultima e prima per importanza, angelo del focolare che fin dai western è una maestra elementare. Tocco di classe è la scelta della macchina, una BMW; auto elegante ma sobria, perfetta per una famiglia lavoratrice partita dal basso. Se questo concetto dovesse essere un edificio, quale sarebbe?
Un mulino bianco.
Il marchio era nato nel 1977, ma solo nel 1990 Armando Testa, capo creativo, ne trova uno ideale in val di Merse, perso nel nulla della campagna. Si chiama Mulino delle Pile. Dall’architettura – ha un torrione – risale addirittura al 1200 ed è il mix perfetto tra lo stile medioevale dei borghi italiani e quello delle cascine di campagna. Appartiene ai monaci dell’abbazia di Serena, ma non è un problema. Per decidere il primo sketch dello spot, Testa chiama Ennio Morricone e Giuseppe Tornatore, e non è nemmeno strano: prima le reclame le commissionava a tale Federico Fellini (sì, lo so, è stupendo).
Per alcune riprese devono fare un modellino di cartapesta, poi montano tutto.
Il risultato dello spot (e dei sequel) fu un tale successo da entrare nel lessico comune a distanza di vent’anni. In azienda sapevano che si trattava di un’immaginario ottocentesco, ed è per questo che sapevano avrebbe funzionato. La famiglia del Mulino bianco dipinge i sogni proibiti – e inconfessabili – degli italiani tanto da scatenare valanghe di parodie, critiche e accuse di essere uno spot “irrealistico”. Fatalità nessuno sente il bisogno di farlo per macchine che diventano transformers o simili, perché non vanno a toccare le corde più profonde del nostro popolo.
Viceversa, quella ruota che gira ha un impatto emotivo gigantesco in una società che aveva abbandonato concetti come famiglia, tradizione e radici in funzione di mobilità, modernità, dinamismo e jet set, fino a empatizzare con un gattino abbandonato sotto la pioggia a sognare di tornare a casa dalla propria famiglia. Un sogno provinciale, tradizionalista, nostalgico, passatista, romantico, per alcuni addirittura patriarcale. Insomma: l’essenza più pura del nostro popolo, pur con la narrativa degli anni ‘90.
L’impatto fu devastante, a livello sociale.
I ricchi s’innamorarono dell’idea e si trasferirono in campagna dove il rischio dei sequestri pareva più lontano e quell’atmosfera sognante più vicina. L’Italia aveva trovato il suo equivalente del sogno americano e quel senso di casa, di appartenenza e di tradizione che sconfisse l’idea dello yuppie spregiudicato è rimasto sedimentato nel profondo della nostra popolazione ancora oggi. La Barilla – Dio sa perché – non comprò il vero mulino, che per molti anni rimase in rovina.
Di recente, anche grazie al fatto che molti di quello spot hanno fatto un piccolo culto, è stato ristrutturato ed è diventato un agriturismo assai popolare. Gli spot di Barilla e l’iconografia si sono evoluti in funzione di una più attuale, in cui non esistono legami familiari – né yuppies da consolare. Da “torna alla Natura”, lo slogan è diventato “un mondo buono”.