Il rapporto del censis dice solo che siamo un popolo invincibile
Esce il rapporto del censis di quest’anno (ecco in esclusiva l’hotlink al rapporto che nessuno vuol mettere) e la narrativa dei giornalisti professionisti sentenzia lapidario: un italiano su due preferirebbe un uomo forte al governo, l’antidoto è “l’effetto Greta”. È subito allarme fascismo, scandalo, indignazione e florilegi di editoriali. Paolo Pagliaro, 8 e ½; “una pulsione antidemocratica confermata da altri dati”. Quali? “Solo 19% degli italiani parla di politica quando s’incontra, il 76% non ha fiducia nei partiti”.
Una prova inoppugnabile.
Il Corriere della Sera: “negli ultimi anni, per protesta contro uno Stato assente, gli italiani hanno smesso di essere quel popolo in maggioranza moderata che sono sempre stati” tipo durante il ventennio, o durante il dopoguerra, o durante gli anni di piombo. Riguardo alla regia della notizia, se la regola è prendere un briciolo di verità e buttare il resto nel trogolo, allora il titolo potrebbe essere “la maggioranza degli italiani (il 51,8%) preferisce un uomo debole al potere”. Anche questa frase è vera, ma da un lato non permette di parlare di fascismo, dall’altro… cosa significa?
Cosa vuol dire “uomo forte che non deve preoccuparsi del parlamento”?
Ho così deciso di leggere il rapporto e guardare la presentazione (al momento 666 visualizzazioni, 0 commenti, 4 like, 2 dislike, 0 commenti). Il dottor De Rita racconta che dal 2006, progressivamente, l’economia italiana è declinata verso il basso e si è compromesso “l’orizzonte del futuro”. Due anni prima della crisi economica abbiamo visto che le cose cambiavano e abbiamo fatto ciò che per altri Stati era impensabile: ci siamo fermati e messi a testuggine.
Due anni dopo la crisi economica ha investito il mondo e i nostri politici non hanno saputo darci risposte o rassicurazioni, abbandonandoci a noi stessi. Mentre l’economia collassava, ogni certezza crollava e ogni speranza nel futuro cadeva, noi italiani ci siamo inventati delle “piastre di sostegno” (50.13) poco rilevanti nel valore complessivo, ma enormi dal punto di vista psicologico.
Abbiamo ritrovato una vocazione industriale e manufatturiera, riportato le fabbriche a essere centri di aggregazione e innovazione. Abbiamo abbracciato la tutela dell’ambiente perché trasmette un senso di novità e passaggio in avanti, che anche se effimero o utopico unisce le persone. Abbiamo fatto in modo di risparmiare affinché guardando l’estratto conto potessimo dire “mah, non siamo così poveri”, abbiamo fatto del nero necessario (14.00) e in preda a un “furore di vivere” siamo sopravvissuti.
Ci è costato, sì, e parecchio
Oggi l’incertezza è lo stato d’animo dominante (6.48) e la nostra fiducia nei due pilastri storici della nostra economia, mattone e BOT, è rasa al suolo. Il 61% degli italiani non li comprerebbe. La mancanza di fiducia nel futuro, inoltre, ci logora con uno stress esistenziale che ci spinge a consumare più psicofarmaci. Il telaio della collettività tipo sindacati, associazioni e rappresentanti si è indebolito in un corale “ognun per sé” (46.24), sono stati tagliati posti di lavoro in favore dei robot, abbiamo peggiorato la qualità del terziario.
Non abbiamo il potere per trovare soluzioni, ma siamo dei geni del rattoppo.
Dal punto di vista psicologico ci siamo aggrappati alla nostra identità nazionale, ma non a quel nazionalismo ottocentesco o novecentesco di cui parlano i giornalisti. Anzi. Il nazionalismo di oggi è una forma “introflessa e protettiva” (41.40) e tutt’altro che chiusa (36.44): il 61% non tornerebbe mai alla lira e il 62% si dichiara a favore dell’Europa. L’identità oggi gli italiani la cercano “dentro circuiti di costruzione identitaria legata alle proprie passioni” (35.09) e soprattutto nel “proliferare di festival, sagre, occasioni d’incontro anche stravaganti. Non c’è paese di provincia che non pensi a un proprio modo per stare in piazza a raccontarsi”.
Detta in breve: pizza e mandolino
Dopo tutto questo – ed è un prologo molto importante – la sfiducia e l’insofferenza verso la politica sono saliti non per ideologie, ma per l’immobilismo e alla fine l’incapacità di prendere decisioni. Il 90,3% degli spettatori televisivi detesta vedere politici in TV e preferirebbe scienziati, medici e altri esperti (73,1%), persone di talento come attori, cantanti e ballerini (46,7%) oppure poeti, scrittori e filosofi (43,5%). In una parola, gli unici a cui piacciono quei porcili dove la gente si urla dietro fingendo di fare politica sono gli autori e gli intellettuali che poi ne parlano sui social.
Gli italiani li guardano perché non hanno alternative.
Non cercano “un uomo forte” e del resto, chi vorrebbe un uomo debole? Cosa significa? Togliatti era debole? Berlinguer era debole? Andreotti, Craxi, Pertini, Cossiga erano deboli? Ad ascoltare la presentazione e leggere il rapporto, agli italiani piacerebbe solo qualcuno che decida e se ne assuma le responsabilità. E in subordine, lasciasse stare al comunicazione schizofrenica, il voler per forza essere sull’argomento del giorno e il fare battaglie a oltranza senza compromessi, su cui si basa la politica.
Il nostro è lo stesso, solito popolo irrequieto e contraddittorio in balia di pulsioni, racconti e narrativa. Ed è un popolo purtroppo invincibile, perché dotato di una forza furibonda, brutale, atavica e indomabile che è anche il suo peggior difetto. (1.02.48) «la società italiana è pigra e furba. Nella pigrizia io aspetto, guardo, e poi in qualche modo prenderò la decisione e me la caverò. La pigrizia è una gran dote, non è detto che sia un difetto. Umberto Galimberti l’ha chiamata “etica del viandante”, cioè la capacità di camminare e via via che arriva un problema, coi mezzi che ci sono a disposizione lì, ci si arrangia.»