Nel 1902 fu dato alle stampe per la prima volta L’immoraliste di André Gide (1869-1951), scrittore francese e premio Nobel nel 1947. Sette anni dopo, dello stesso autore, venne pubblicata la Porte étroite. Le reazioni dei lettori, messi di fronte ai due romanzi, furono del tutto opposte: nel caso de L’immoralista la critica si limitò a ignorare volutamente l’opera, parlandone il meno possibile, salvo giudicarla negativamente; l’opera apparve come una parentesi da dimenticare nel più ampio percorso letterario dell’artista. La porta stretta, invece, si rivelò in maniera imprevista un vero e proprio successo, superando le aspettative dello stesso autore.
Gide, comunque, faticò per tutta la vita ad accontentarsi dell’esito positivo ottenuto nel 1909; persuaso dall’idea che trascurare il racconto immediatamente precedente significasse, di conseguenza, giudicare erroneamente il successivo, cercò in tutti i modi di palesare il loro legame.
L’immoraliste e La porta stretta: il problema di come vivere
La porta stretta, non era, come molti pensarono, l’indice di un cambiamento di direzione avvenuto nella vita di Gide; la sua storia non rappresentava un superamento della precedente: si presentava, invece, come un’alternativa a L’immoraliste, pensata per convivere con esso; esattamente come due opposti caratteri coesistono, armonizzandosi vicendevolmente, in una stessa anima.
Le opere fanno ambedue riferimento a un fondo autobiografico. In ciò sono parte di un tentativo duraturo e consapevole dell’autore di fare del proprio vissuto un’opera o, altrimenti, di usare l’opera come forma di autoanalisi. Entrambe, soprattutto, nascono da uno stesso problema: quello del come vivere. L’una e l’altra mostrano, verso la fine, la difficoltà, se non l’impossibilità, di trovare una risposta univoca a questo dilemma, senza finire in una situazione drammatica. I protagonisti dei romanzi si votano a soluzioni contrarie, adottando principi tra loro antitetici; ma insieme sembrano voler dimostrare come alla vita non sia applicabile un’unica regola.
Il vitalismo sfrenato de L’immoralista
L’immoralista narra di un cambiamento radicale nella condotta di vita del protagonista, Michel, maturato in seguito a uno sconvolgimento interiore causato da una malattia. Ammalatosi di tubercolosi, dallo stato patologico Michel ricava un altro punto di vista sul passato e sul presente della sua vita. La necessità di tornare in salute gli fa vedere come Bene solamente ciò che è utile alla guarigione. La convalescenza gli impone altre norme, altri principi: “Per chi è stato sfiorato dall’ala della morte, ciò che sembrava importante non lo è più; lo sono altre cose”, ammette Michel.
Una volta guarito, capisce che i dettami a cui ha obbedito in precedenza sono contrari allo sviluppo delle sue forze: “Non ero più quell’essere fragile e dedito solo agli studi a cui si addiceva la morale precedente estremamente rigida e restrittiva”. Dovendo riorganizzare la sua scala dei valori, mette al primo posto quello dell’autenticità, da intendersi come adesione totale al suo supposto vero essere. “Il mio solo sforzo era perciò quello di bandire o sopprimere in me sistematicamente tutto ciò che pensavo fosse dovuto soltanto alla mia istruzione precedente e alla mia prima morale”, racconta il protagonista.
Solo che, come è annunciato dalle prime pagine, “Sapersi liberare non è niente; il difficile è sapere essere liberi”. Riproducendo il classico contrasto tra vita e forma, la morale dell’autenticità si rivela essere una finzione, o meglio la giustificazione di un profondo egoismo, le cui regole, rigide quanto le precedenti, renderanno Michel responsabile della morte della moglie Marceline. Ella stessa, quando è già troppo tardi, gli confida: “Comprendo appieno la tua dottrina. È bella, forse, ma sopprime i deboli”. Lo stesso Michel cade vittima del circolo vizioso di una supposta autodisciplina della vita: “Ho cercato, ho trovato ciò che costituisce il mio valore: una specie di ostinazione nel male”, si legge nelle ultime pagine. Così si consuma il dramma del L’Immoralista.
La virtù estrema de La porta stretta
In esergo della Porte étroite, Gide colloca una frase tratta dal Vangelo secondo Luca: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”; il passo di San Luca recita subito dopo: “Perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”. “La porta stretta” è un’allegoria usata dall’autore per rappresentare un cammino spirituale fatto di sacrifici e di rinunce. Destinato a quei pochi capaci di percorrere la via della santità, tale cammino rende prossimi già in vita alla condizione di beatitudine data dalla vicinanza con Dio.
Alissa, la protagonista del racconto, sarebbe una di quei pochi. Seguendo in maniera inflessibile quel precetto, ella combatte contro se stessa per tenersi lontana da ogni gioia terrena; la sua vocazione le impone di non concedersi in sposa al cugino Jérôme, di cui è innamorata. Quest’ultimo si piega alla volontà dell’amata e ne subisce passivamente le scelte. In questo egli appare molto simile a Marceline.
Profondamente turbata dal conflitto interiore scaturito dall’ennesimo rifiuto dovuto a Jérôme, Alissa si lascia morire nella speranza di realizzare la totale e definitiva comunione con Dio. Il primo titolo scelto da Gide per il romanzo era, non a caso, Trattato della buona morte; tuttavia, il misticismo ascetico della protagonista si rivela cieco, severo e autodistruttivo tanto quanto l’egoismo vitalistico di Michel; capiamo quindi perché Gide ha voluto definirlo “Gemello dell’Immoraliste”.
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André Gide: L’equilibrio degli eccessi
“Chi dunque può potrò persuadere che questo libro è gemello dell’immoraliste, e che i due soggetti sono cresciuti parallelamente nel mio spirito, l’eccesso dell’uno trovando nell’eccesso dell’altro un segreto permesso e tutti e due mantenendosi in equilibrio”. Questo è il commento di Gide a qualche anno dalla pubblicazione dei due romanzi.
I critici, spiegava l’ideatore, “Sono imbarazzati ad ammettere che questi libri diversi abbiano coabitato, coabitino ancora nel mio spirito. Essi sono venuti uno dopo l’altro solo sulla carta e nell’impossibilità di una stesura contemporanea”.
Con quelle parole Gide non chiedeva semplicemente che venisse riconosciuta la complessità del suo animo nella sua totalità. In gioco, nei commenti del lettori, vi era ben altro: in primis la possibilità di disincantare un certo moralismo che ruotava attorno alla condanna de L’immoraliste; in secondo luogo, una tesi dell’autore comprensibile solo guardando ai due romanzi parallelamente e senza pregiudizi: la necessità, per il ben vivere, di mediare gli eccessi delle due volontà.
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