Nei casi di cronaca spesso si leggono notizie riguardanti casi di bancarotta fraudolenta di aziende anche di grandi dimensioni. Pertanto si tratta di un argomento certamente attuale e che merita di essere chiarito. Vediamo allora in che cosa consiste esattamente, quali sono le pene previste e un interessante precisazione della Corte Costituzionale.
Bancarotta fraudolenta: di che si tratta e quali sono le sanzioni?
Anzitutto anticipiamo che il reato di bancarotta fraudolenta trova attualmente compiuta disciplina nella cosiddetta legge fallimentare (ovvero la legge n. 267 del 1942), all’art. 216. Tuttavia, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato ad inizio 2019, sostituirà questa norma, regolando la bancarotta fraudolenta a partire dal 15 agosto del prossimo anno. Va però rimarcato che modifiche sostanziali non sono state introdotte, restando la sostanza dell’istituto praticamente la stessa. Ma cos’è e quando scatta il reato di bancarotta fraudolenta?
Esso si verifica laddove un imprenditore, già dichiarato fallito con sentenza emessa dall’autorità giudiziaria, attua – con piena consapevolezza – delle condotte penalmente rilevanti, nel mero obiettivo di ottenere un indebito vantaggio o di arrecare danno e pregiudizio ai creditori o almeno ad alcuni di essi. Insomma, la bancarotta fraudolenta si differenzia dalla cosiddetta bancarotta semplice, in quanto quest’ultima è caratterizzata non dalla consapevolezza della frode, bensì da mera imprudenza, impreparazione o da una gestione poco accorta dell’imprenditore. Secondo la legge vigente, i comportamenti punibili, a titolo di bancarotta fraudolenta, sono in sintesi:
- riconoscimento di passività inesistenti, per danneggiare i creditori;
- sottrazione, falsificazione o tenuta irregolare di libri e scritture contabili, allo scopo di impedire la corretta individuazione del patrimonio o del movimento degli affari;
- distruzione od occultamento di beni;
- pagamento solo di alcuni creditori o simulazione dell’esistenza di titoli di prelazione, al fine di favorire solo alcuni creditori, e non altri;
Nei primi tre casi visti in elenco, la pena prevista è la reclusione da tre a dieci anni, mentre nell’ultima ipotesi (violazione della cosiddetta “par condicio creditorum“), la pena è complessivamente meno grave, essendo possibile la reclusione da uno a cinque anni. Le previsioni in tema di sanzioni permarranno fondamentalmente inalterate anche al momento dell’applicazione del nuovo Codice della crisi dell’impresa, prevista – come accennato – il prossimo anno.
La precisazione della Corte Costituzionale in materia di sanzioni
L’art. 216 suddetto prevede inoltre le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità a ricoprire uffici di direzione in ambito imprenditoriale. Tuttavia, ciò che preme ricordare è che il nuovo testo del Codice della crisi d’impresa, sul punto, è differente rispetto alla legge fallimentare, a seguito di una pronuncia di incostituzionalità da parte della Consulta (sentenza n. 222 del 2018).
Infatti, la norma della legge del 1942 dispone che l’inabilitazione e l’incapacità hanno una durata pari a dieci anni, mentre il nuovo testo del Codice ha modificato la previsione – attenendosi alle indicazioni della Corte Costituzionale – e prevedendo che le pene accessorie possono avere una durata totale “fino a dieci anni“.
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