Il meme con il tizio che domanda “cosa fai a capodanno?” comincia a serpeggiare sui social dai primi di settembre e, in buona parte dei casi, chi lo posta ne è lo stesso protagonista. Per molte persone il capodanno è una specie di casello autostradale della vita in cui tiri le somme dell’anno passato, allarghi la cintura di un buco e cerchi di ubriacarti abbastanza per credere ai propositi per l’anno successivo.
Insomma, è un venerdì sera in cui spumante e piatti opulenza anni ’90 tipo pennette alla vodka, risotto alle fragole, cascate di prosciutto e piramidi di Ferrero rocher costano 100 euro.
Mentre a vent’anni fare il capodanno con la cumpa era logico e immediato, le cose si complicano quando molti sono sposati, vivono fuori città, hanno perso di vista gli amici o non ne hanno più; non è un caso se quel filmato mezzo fake del pubblicitario che dichiarava di non avere amici è diventato viralissimo.
Alcuni stanno venendo presi a calci in bocca dalla vita così tanto che non hanno niente da celebrare. Altri si sono mollati con la donna. Altri non hanno un centesimo. Altri sono in una città nuova. Altri, da quando sono diventati adulti, durante le feste hanno una vaga malinconia che non sanno spiegare ma che li tormenta.
Sia come sia, tutti prima o poi hanno passato almeno un capodanno da soli, nella vita.
Il mio primo è stato nel 2000.
La donna era andata con un altro, io avevo la morte dentro e non volevo interpretare il classico zombie che alle feste rovina il mood allegro e/o scopereccio, soprattutto perché era IL DUEMILA, mille e non più mille, cambiamenti epocali e io con le corna. Così presi sei Moretti, una pizza surgelata e passai il capodanno davanti all’FL Studio (all’epoca chiamato Fruity Loops) a fare un beat.
Mi ricordo che a mezzanotte mi tolsi le cuffie, fuori era un tripudio di fuochi artificiali e mi sentii immensamente solo. Come spesso succede in quei casi, il cervello salta lo steccato e ti fa spuntare quel buonumore drogato di chi si rende conto di aver sbagliato tutto, però boh, dai, fa ridere.
Giurai a me stesso che non si sarebbe mai più ripetuto e, come tutti i propositi che si fanno a capodanno, non funzionò.
Nel 2004 ero tornato dall’università senza una laurea, vivevo in un garage subaffittato sniffando la connessione del vicino – e non solo quella – mi vergognavo come una spia e avevo perso i contatti con tutti, sia a Trieste che a Mestre. Si stava per ripresentare lo stesso problema, così pensai che ci doveva essere un botto di altra gente nelle mie condizioni. Mi misi il più decente possibile e me ne andati all’ospizio di Santa Maria dei Battuti.
-È parente di qualcuno?
-No. Volevo sapere se vi serve sostituire qualcuno a capodanno.
Dopo un breve colloquio tra gente incredula, passai il mio capodanno del 2004 tra vecchietti abbandonati dalla famiglia, badanti annoiate, infermieri filosofi e un paio di ragazze della diocesi. Gli alcolici erano proibiti, ma venne concesso un mezzo bianchino a quelli che sarebbero riusciti a stare in piedi fino alla mezzanotte, cosa che motivò molti di loro a maratone durissime. So che a 24 anni potrà sembrare patetico, ma fu un capodanno in pieno stile Monicelli, con storie umane straordinarie e gag irriproducibili.
Non come quello in cui Atza bombardò la casa del vicino assassinandogli il gatto e facendo deflagrare un’automobile dall’altra parte della strada, certo. Diciamo che fu un capodanno istruttivo e costruttivo, concetti estranei ai miei vent’anni.