Nel 1995 era ancora legale far lavorare i minorenni, così compiuti 15 anni i miei mi mandarono a fare lo stagionale ad Abano terme. Le località termali negli anni ’70 e ’80 erano una macchina da soldi; il contado arricchito con il boom economico, complice il rimborso del SSN, veniva da ogni parte d’Italia per godere delle benefiche fanghiglie e rimettere in sesto corpi abituati a spostar aratri e mattoni.
Alberghi di lusso e ristoranti si moltiplicavano come formiche d’estate, ospitando e spennando famiglie mai uscite dalla campagna o dai cantieri. La sera, ai tavoli e nelle hall, sfilavano dinner jacket e abiti lunghi, gioielli di famiglia, parure della bisnonna; si beveva “sciampagna”, i più scafati ordinavano cocktail ricercati; americano, Martini, Manhattan, Stinger. La vacanza, per alcune famiglie la prima della vita, era una festa e una celebrazione.
Poi era andato tutto in malora.
Alla fine degli anni ’80 il SSN aveva chiuso i rimborsi e abolito i congedi straordinari, le SPA offrivano un servizio migliore e più esclusivo, ma soprattutto VIP e ricchi borghesi preferivano località dove non dovevano mangiare gomito a gomito coi grezzi in gessato. Nell’arco di cinque anni le città termali erano diventate tante Racoon city e alla fine di agosto 1995 vagavo solo per i corridoi con la moquette ammuffita, le serrature usurate e un silenzio opprimente, in cui potevi sentire il rubinetto che perdeva in una stanza al piano di sopra.
I clienti erano meno di una decina, tutti sopra i cinquant’anni; un gruppetto di tedeschi che parlottava a bassa voce, poi donne e uomini soli che passavano le giornate a usufruire di terme scassate, flirtare coi camerieri ventenni o a guardare la televisione. C’era una sola coppia sposata: lui, sessantenne azzimato con lo sguardo gentile, regimental verde e blu e giacca un po’ consunta. Lei sui cinquanta portati male, maglioni glamour anni ’80 e stivali bassi.
Al mattino stavano nella hall a leggere, alle 10 lui prendeva un cappuccino e lei un tè, Earl grey. Lui le teneva la mano da una sedia all’altra, ma non si parlavano mai. Restavano in silenzio a tenersi la mano leggendo, guardando la TV, facendo parole crociate. Sparivano verso mezzogiorno e ricomparivano all’ora di cena, quando portavo due prosecchi con tartine al salmone.
Lui era cordiale; sorrideva, mi chiamava per nome, mi lasciava belle mance, pacche sulle spalle e un paio di occhiolini. Lei non mi aveva mai rivolto la parola, e da come mi guardava non dovevano piacerle granché gli adolescenti. Una sera, quando porto i soliti due prosecchi, lui dice qualcosa tipo “ecco il buon Nicolò con l’aperitivo”. Lei abbassa il giornale sulle gambe e sbotta:
– Ma santo DIO, vuoi lasciare in pace quel bambino? –
È così inaspettato che prendo paura, mi trema il braccio e mi cade un bicchiere dal vassoio dritto sulla manica della giacca di lui. Mi scuso, lei si alza e se ne va a passo svelto verso l’ascensore, con lui che la segue.
Il mattino dopo è il classico giorno di fine agosto, col cielo grigio di pioggia e le prime foglie secche portate via dal vento. Per la prima volta ordinano la colazione in camera, dalla cucina mi arriva il vassoio, salgo al secondo piano con l’ascensore e sento la voce di lei che grida dal fondo del corridoio. Nessuno protesta, perché non ci sono altre stanze occupate né cameriere che le devono rifare. Quando l’ascensore si chiude ricordo la luce grigia, l’odore degli arredi vecchi, il riverbero della voce di lei e io spingo il carrellino, col tintinnare dei cucchiaini contro la zuccheriera che risuona come colpi di cannone.
– Perché hai voluto tornare qui?! Che senso ha? Non siamo mai stati felici, Roberto! Non ci siamo mai amati, lo vuoi capire? Mai! Non si può ricominciare! È patetico, non lo vedi? –
Fermo davanti alla porta preferirei sotterrarmi, ma voglio guadagnarmi le 300,000 lire che poi mi sputtanerò in sala giochi. Busso, le grida s’interrompono, lei domanda chi è. Dopo un istante mi apre lui, sta sulla soglia e mi fissa. Ha un pigiama a righe blu, una vestaglia di lana beige, è pallido e ha gli occhi arrossati. In una frazione di secondo la sua faccia si deforma in un sorriso grottesco, più simile a uno spasmo nervoso:
– Ah, ciao Manuele! – esclama.
Dall’interno della stanza, con un guaito terrificante, lei urla che io non sono Manuele, Manuele è morto. E continua a ripeterlo come un mantra anche dopo che lui ha chiuso la porta e io attraverso il corridoio più in fretta che posso.