Per le strade di Roma
Per strada si ferma un furgone. Un uomo sulla quarantina, capelli ossigenati, orecchino e occhiali da sole, completamente vestito di jeans, scende muovendosi come se fosse il padrone di casa; alza entrambe le mani con l’indice in alto e il mignolo appena piegato: “Dunque, famme ragionà”.
“Coraggio” geme qualcuno, un’intonazione che è solennità, noia e ironia insieme. L’uomo in jeans manda un’occhiataccia verso un gruppetto di uomini al bar, poi tira dritto.
Nell’aria c’è l’odore tipico delle salumerie che si mescola a quello della pizza, nonostante siano le cinque. Ci sono macchine in doppia fila, sui passi carrabili, sulle strisce pedonali. Dal terrazzo qualcuno canta una melodia indiana con voce da soprano.
Nella gente, per le strade, nella metropolitana, nei ritmi, nei suoni e negli odori di Roma non c’è niente di cosmopolita o internazionale. Da piazza di Spagna a san Giovanni, dall’Esquilino a Prati, la gente porta stampata in faccia un’indolenza rassegnata, a metà tra lo scanzonato e l’annoiato. I romani sono curiosi ma s’annoiano in fretta. e detestano qualsiasi discorso più lungo di dieci parole anche se li riguarda o li potrebbe aiutare.
Sono felici dei cambiamenti positivi, sbuffano a quelli negativi, ma sembra niente li riguardi davvero. “Seh. Hm. Hm. Vabbè, hm.”, dicono, come se dovessero interromperti. Appena smetti di parlare, cambiano argomento. Provi a seguirli, e lo cambiano ancora.
È come se fossero noiafobici.
Ogni discorso deve sfiorare le cose senza toccarle o approfondirle. Parlano con occhi e muscoli facciali più che con la bocca e badano più a quelli che alle parole. Non ho mai trovato una città dove il sorriso è tanto importante, tanto cercato e tanto rispettato. Qui ogni frase dev’essere ben calcolata, perché non avrai la possibilità di dirne un’altra sullo stesso soggetto. Rispetto a Milano, è come se ci fosse un balzo di tremila chilometri.
Milano mi metteva nostalgia di casa. Della laguna, dell’accento, dei sapori, delle colline di Treviso, di quel provincialismo contado che mi porto dietro e che a Milano è visto come uno schitto fuori dall’autolavaggio. Se vivi all’ombra del Duomo ti adatti più che puoi a quell’atmosfera di grande metropoli europea finché t’ingloba o ti respinge, perché è un ingranaggio funzionale e implacabile. Milano può portarti sul palmo della mano un giorno e farti sentire solo come un cane quello dopo.
A Roma, invece, solo non sei mai.
C’è sempre un’occhiata, un saluto, una frase, un clacson. Brulica di vita che interagisce più o meno volentieri, e forse per questo ha imparato a farlo in fretta. C’è qualcosa in questa città che non ho mai trovato altrove, ma non so ancora dire cos’è. Forse la bellezza sconfinata, titanica, che ti piomba addosso a ogni scorcio e ti lascia senza fiato tanto da interrompere quello che stai facendo. Complici gli onnipresenti turisti, mi ricorda casa più di quanto non facesse Milano con gli autobus in orario, il clima umido e uggioso che tanto mi piace, le refolate di legna bruciata e le facce rabbiose intabarriate nelle sciarpe.
È come se fosse sempre venerdì, a Roma, con gli autobus che se chiedi ti rispondono “quando arriva, arriva”, le scale mobili dove ognuno si mette dove gli pare, l’immondizia accatastata sopra e attorno ai cassonetti, le strade scassate coi sampietrini scalzati, cacate di cane lasciate lì a mo’ di mina, e quando domandi dove si butta il vetro ti guardano storto: “oddìo, nun me di’ che sei uno de quelli che fa la differenziata”. Se avessi detto di essere un eunuco m’avrebbero guardato meglio.
Sapere che vivrai in una città ti cambia modo di vedere le cose, perché devi pensare anche alla tua compagna, alla macchina, ai trasporti, ai figli e alle scuole. Posso capire chi l’ha lasciata, chi dice che viverci è impossibile, ma dipende da dov’è partito e come. Dipende dalle classifiche di “qualità della vita” che per me son sempre state una cazzata. Per ora, Roma mi sembra una città come non ne ho mai viste al mondo, e non vedo l’ora d’infilarmici dentro.