Un brutto paradosso

Un brutto paradosso

 

Che importa se c’è chi viene condannato per istigazione al razzismo e nessun dirigente del partito prende le distanze; se si pensa che il Natale sia “bianco” non per la neve ma per il colore della pelle di chi lo festeggia; se, e qui mi fermo, ci si veste di verde e per festeggiare si prendono a bastonate lavoratori albanesi (anche qui, neanche un mea culpa). Per La Padania il problema è che “loro scelgono di incrociare le braccia”.

 

 

Loro“, naturalmente, sono gli immigrati. Colpevoli di avvalersi di un diritto costituzionale (sancito dall’art. 40), e sposare uno sciopero, originariamente proposto in Francia, utilizzando il trinomio (dimostratosi di successo) Facebook (con tanto di comitati locali) blogcolore ufficiale, questa volta il giallo. Lo scopo? Far tastare con mano, fuori della retorica populista-nazionalista di certa parte della maggioranza, “cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che lavorano in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno”.

[ad]Per Simone Girardin, autore dell’editoriale odierno del quotidiano leghista, si tratta di “un segnale, per alcuni fin troppo evidente, di chi vuole comandare anche in casa d’altri“. Che ai molti dubbi (sul numero di adesioni, sull’appoggio delle associazioni sindacali, sulla liceità stessa di una protesta “fragorosa” al punto di “paralizzare intere città” – ma come, non c’era il “rischio di flop“?) accompagna una amara certezza:

“Di certo c’è che a marzo, mentre gli stranieri incroceranno le braccia in segno di protesta contro le lungaggini burocratiche per i permessi di soggiorno, il diritto di voto e i tempi sulla cittadinanza, molti nostri lavoratori saranno a casa senza lavoro. Un brutto paradosso…”

Tuttavia c’è chi non si spaventa di fronte alla dimostrazione che vogliano “comandare loro”, come si evince dal titolo a pagina 3, e che siano “intolleranti alle nostre regole” (sempre “loro”): si tratta del senatore Paolo Franco. Che, rispondendo alle proteste suscitate dal presidente dell’Unione degli immigrati di Montecchio Maggiore Osman Condè, afferma:

“Se il signor Condè, da qualche mese cittadino italiano, vuole continuare questa sua personale battaglia lo faccia pure: imparerà qual è la tenacia della nostra genteche ha resistito per secoli persino alle minacce e alle aggressioni dei potentissimi ottomani…”

(per continuare la lettura cliccare su “2”)

E io che pensavo volessero solo lavorare nelle nostre fabbriche e pulire le nostre case. Ad ogni modo, niente di strano per chi, poco più di una settimana fa, spronava alla guerra santa. Le stranezze, tuttavia, si moltiplicano se si osservano i dati riportati nel rapportoL’Immigrazione in Italia tra identità e pluralismo culturale realizzato dal ministero dell’Interno (retto, lo ricordo, dal leghista Maroni) e pubblicato da Nomisma a fine settembre 2009. Da cui si evince che, oltre ai preoccupanti fattori culturali di cui si è detto, i lavoratori e i datori di lavoro immigrati abbiano ragioni strutturali a sostegno delle proprie lamentele. I lavoratori stranieri, ad esempio, subiscono una marcata differenza retributiva rispetto agli italiani. Il III Rapporto dell’INPS del 2009 dimostra che nell’ambito del lavoro dipendente (che riguarda l’84,8% degli immigrati) gli stranieri extracomunitari percepiscano una retribuzione inferiore del 36% rispetto agli altri lavoratori.


Il che conduce a un reddito medio di poco superiore ai 12 mila euro per gli uomini e ai 7 mila per le donne. Certo, parte della differenza è attribuibile alle diverse caratteristiche occupazionali di italiani e stranieri. Questi ultimi infatti sono in media più giovani, meno qualificati (15,4% di lavoratori dequalificati stranieri contro solamente il 6,9% di italiani) e con un livello di istruzione più basso (anche se non quanto si pensi – i laureati, ad esempio, sono il 12% contro il 17% degli italiani). [ad]Tuttavia è solo parte della storia. I lavoratori immigrati subiscono, infatti, molto più dei nativi una mancata corrispondenza tra titolo di studio e mansione svolta (37% contro 16%); untasso di disoccupazione più elevato di tre punti percentuali; sono maggiormente soggetti a episodi infortunistici (44 casi ogni 1000 occupati contro 39), con picchi di oltre il 70% per quanto riguarda il personale domestico (colf e badanti). Indicativo che quasi un infortunio su due abbia luogo nel Nord-Est. E, qualora decidano di diventare datori di lavoro, incontrano maggiori difficoltà nell’accesso al credito. Questo nonostante gli imprenditori immigrati diano lavoro anche agli italiani, impiegando un lavoratore dipendente su dieci, producendo un gettito fiscale superiore già nel 2007 ai 5 miliardi di euro e una quota di 122 miliardi del Pil. E nonostante la giovane età degli imprenditori si traduca in un modesto esborso per i servizi presidenziali.

Una ulteriore stranezza è che si invochi lo spettro della “paralisi” di intere città, quando gli occupati stranieri sono solamente il 7,5% del totale dei lavoratori (da cui si evince che il manifesto degli organizzatori è prima di tutto una provocazione). Questo, sia chiaro, ammesso e non concesso che Facebook riesca a portarli tutti in piazza, cosa di cui dubita lo stesso Girardin, visto che “non tutti gli stranieri hanno internet”. Un dato sul quale, invece di ironizzare, il nostro farebbe bene a riflettere, dato che il digital divide (non solo in termini di accesso, ma di qualità dell’accesso) è considerato fin da Galassia Internet di Manuel Castells (2001, un’era geologica fa) uno dei maggiori fattori di disuguaglianza sociale.

Da ultimo, non sembra esserci perfetta sovrapponibilità tra richiesta di lavoratori immigrati e italiani. E questo (fortunatamente) non per ragioni razziali, ma per le caratteristiche della stessa offerta di lavoro che, come abbiamo visto, si rivolge ancora a mondi parzialmente differenti. I Girardin e i Feltri possono dormire sonni tranquilli: gli immigrati potranno incrociare le braccia o meno, senza che cambi molto per i nostri giovani disoccupati.

Evidentemente, è più semplice dare la colpa ai primi che fare qualcosa di concreto per i secondi. Questo sì, caro Girardin, è un “brutto paradosso“.