L’immigrazione: risorsa o minaccia?
Dopo i tragici fatti di Rosarno, si è fatto un gran parlare di immigrazione. Soprattutto all’interno del centrodestra.
Bondi ha dato la colpa alla sinistra, la sinistra ha dato la colpa a Maroni, Maroni l’ha data a chi è stato “troppo tollerante” con i clandestini, Feltri se l’è presa con chi spara ai “negri” invece di sparare ai mafiosi e Battista se l’è presa con Feltri perché ha usato una g di troppo. Per sgombrare il campo da pregiudizi di natura politica, e farsi un’idea di come le statistiche ufficiali catturino il fenomeno, consiglio la lettura della relazione di Fadi Hassan e Luigi Minale per Quattrogatti.info intitolata L’immigrazione in Italia: risorsa o minaccia? che, nello stile oramai consueto del gruppo di lavoro, unisce semplicità e rigore informativo.
I dati raccolti dal duo ci aiutano a sfatare alcuni miti. Prima di tutto, quelli riguardanti il mercato del lavoro: non è vero, ad esempio, che gli stranieri sottraggano lavoro agli italiani o ne causino una diminuzione del salario; e questo, si badi bene, nemmeno (se non in piccola parte) per la manodopera meno qualificata. Le caratteristiche dicomplementarietà del mercato del lavoro immigrato e nativo fanno addirittura sì che la presenza dei primi abbia impatti positivi sui secondi in possesso di un titolo di laurea e sull’impiego femminile.
E ancora: gli immigrati non sono affatto un costo per lo Stato. In termini fiscali, infatti, questi ultimi sono responsabili del 4% delle entrate e solo del 2,5% delle spese. Il tutto producendo il 10% del PIL nonostante immigrato sia solamente il 6,5% della popolazione. E abbassando, grazie alla giovane età, l’indice di dipendenza di un Paese le cui spese pensionistiche e per la sanità costituiscono una imponente voce di costo. Per questa ragione è vero, concludono Hassan e Minale: gli immigrati “pagano le nostre pensioni”.
Ma è nel capitolo dedicato alla criminalità che vengono maggiormente contraddette le grida di chi vedrebbe in atto una “emergenza immigrazione” in Italia. Se infatti è vero che il numero dei criminali è molto più elevato tra gli immigrati che nel resto della popolazione, è altrettanto vero che il tasso di criminalità è in costante diminuzione (dal 5,3% del 2000 al 2,2% del 2006) e, soprattutto, che il numero complessivo di crimini commessi in Italia negli ultimi 15 anni, pur a fronte di un aumento molto sostenuto del numero di immigrati, è sostanzialmente invariato. Questo non significa che non ci sia un problema di integrazione, argomentano gli autori, ma “il punto è: ai cittadini italiani interessa che diminuiscano i reati in generale o i reati commessi da immigrati?“. Una volta compreso che ciò che conta è ridurre la criminalità in generale, appare chiaro come un atteggiamento restrittivo verso i soli immigrati non serva allo scopo. Ciò che va fatto, invece, è contrastare le radici della criminalità, all’opera nello stesso modo oggi e quindici anni fa.
Perché si parla tanto di coste da tenere a bada a ogni costo se solamente il 12% degli immigrati raggiunge l’Italia sui “barconi” della disperazione? Perché viene proposto di imporre un tetto del 30% di stranieri per ogni classe quando a Milano il 60% degli iscritti alle scuole medie è di origine straniera? Perché oltre un italiano su due, già nel 2003, percepiva l’immigrazione come un fenomeno strettamente legato alla delinquenza, ignorando le svariate opportunità offerte da una regolamentazione dei flussi migratori e da una valorizzazione dell’integrazione tra italiani e stranieri?
Colpa dei media, rispondono Hassan e Minale, troppo intenti a descrivere in ogni minuzioso dettaglio il fattaccio di nera di turno e troppo poco attenti a cogliere, oltre al dito che la indica, la luna del fenomeno.
Per fortuna che a ricordarcelo ci sono i quattro gatti di turno.