Venezia è una città unica al mondo, e nel corso dei secoli ha visto accadere cose che in altre città si sarebbero risolte in maniera più semplice, o meno comica. Tra le tante vale la pena citare il tragicomico episodio del 1819, quando l’uomo era molto più ingenuo; erano tempi gloriosi in cui si potevano esporre animali e uomini al solo scopo di stupire e sedurre il pubblico pagante, come nel caso delle olimpiadi del degrado (ovviamente svoltesi negli Stati Uniti) e altri guizzi di cattivo gusto che oggi nemmeno possiamo immaginare.
Durante il carnevale in Riva degli Schiavoni era tradizione esporre baracconi di legno con dentro vari casi umani – i fenomeni da baraccone, appunto – oppure animali esotici. L’ultimo giorno dell’Anno Domine 1819 era una giornata importante: l’Imperatore d’Austria Francesco I e l’intera famiglia erano in visita a Venezia, tutta la popolazione era fuori in maschera e per l’occasione erano state varate due fregate e un panfilo.
Siccome in certi casi c’è sempre quello che vuole strafare, l’organizzazione ebbe la brillante idea di pagare 20,000 franchi per portare in Riva degli Schiavoni un elefante maschio proprio nel periodo degli amori, quando cioè il cervello del pachiderma è obnubilato dal testosterone e divide il mondo in “cose da scopare” e “cose da uccidere”.
La prima idea fu quella di sistemarlo su una passerella che traballava sopra l’acqua. La seconda di farlo circondare da una massa urlante che gli lanciava le noccioline, tra cui un giovanotto biondo che le cronache non spiegano bene se l’aveva infastidito apposta o per sbaglio. La terza fu quella di salutare l’Imperatore d’Austria con una salva di cannonate dall’arsenale; verso le undici di sera il bestione barriva e scalpitava con una vistosa erezione, così gli organizzatori decisero di portarlo al riparo del baraccone per farlo riposare, salvare l’immaginario femminile e poi riportarlo a casa.
Purtroppo un elefante non ha la massa muscolare di un cagnetto, e pur usando corde non c’era verso di farlo muovere. Il biondino, forse per farsi perdonare o per provare a essere d’aiuto, impugnata una pagnotta glie l’aveva sventolata sotto il naso. Gli elefanti oltre a essere bestie intelligenti hanno buona memoria e non appena riconosciuto il rompicoglioni lo aveva afferrato con la proboscide, posizionato tra le zampe e battuto come una bistecca, uccidendolo tra le urla sue e dei testimoni.
Finalmente fugge per le calli inseguito dalla polizia austriaca, ben motivato all’idea di rendere alla popolazione la bella accoglienza e dotato di una forza che qui può essere ben esemplificata.
Il problema delle armi del primo ‘800 non è solo lo scarso coefficiente di penetrazione, ma anche la precisione. I proiettili sono palle di piombo che appena uscite dalla canna se ne vanno a spasso con la stessa precisione di un innaffiatoio; un uomo può puntare una rivoltella contro un elefante a trenta metri e giustiziare una donna che annaffia i fiorellini al balcone dietro di lui.
E difatti.
L’elefante non si scompone per le raffiche di fucileria, anzi: lo tengono attivo e in movimento, falciando tutto ciò che incontra. Scardina porte, distrugge scalinate, tenta d’entrare in case troppo strette devastando l’ingresso con gli abitanti che si buttano dalle finestre in preda al panico, poi capisce il principio e si dirige verso l’unico portone abbastanza grande: la chiesa di Sant’Antonino.
Con una testata sfonda il portone cinquecentesco, entra, fracassa le panche e cerca di barricarsi dietro l’altare, ove spacca l’acquasantiera e appoggiando le zampe su una tomba la devasta, straziando i resti mortali di qualche santo minore. Compreso di essere in trappola, si incaponisce sull’oggettistica sacra. Gli austriaci nel frattempo di dedicano a devastare l’esterno, picconando un muro per inserirci una colubrina che prima viene caricata a mitraglia e disintegra le vetrate dietro l’elefante, poi viene caricata con un proiettile di svariati chili che lo uccide quasi sul colpo.
Questo tripudio d’idiozia e crudeltà non passa inosservato ai veneziani, che compongono subito un poema satirico, L’Elefantide, contenente un coacervo di oscenità e volgarità. L’autore viene incarcerato, il poema censurato e ovviamente diffuso con stampe clandestine nelle bettole più malfamate. La carcassa viene acquistata dagli studiosi che la portano in una chiesa sconsacrata e la dissezionano per conservarne la pelle e le ossa nel museo di scienza naturale.
Tuttavia, mentre le ossa sono arrivate fino a noi, negli anni qualcuno ha trafugato la pelle, mai più saltata fuori. Sull’autore del furto sono state fatte le più disparate leggende, ma è possibile esista ancora oggi, magari in qualche scantinato, ed ha un valore inestimabile.