Monte Zebio, altipiano di Asiago
10 giugno 1917, ore 5,15
Non si sa come o perché il Maggiore Giuseppe Marchese fosse passato dalla campagna di Libia all’altipiano di Asiago. A Tripoli nel 1917 la situazione era difficile e andava peggiorando; la guerra sul mare aveva ridotto gli approvvigionamenti, il caldo era asfissiante, gli uomini erano stanchi e i rinforzi non arrivavano mai. Forse Marchese aveva scelto di andarsene, o forse il suo trasferimento era stato voluto dai vertici militari.
Sia come sia, Marchese era stato messo a capo del 151° reparto di fanteria della Brigata Sassari, a 1683 metri di quota, in una guerra molto diversa da quella che aveva visto nel deserto. Non conosceva gli altri ufficiali, ma nemmeno i suoni, gli odori, il caos e la vita delle trincee.
Eppure doveva comandare.
Come previsto dal Comando, l’operazione K inizia all’alba.
Cannoni e mortai devono martellare le trincee nemiche e prepararle per l’assalto della fanteria, che consiste nel correre allo scoperto contro le mitragliatrici nemiche, piombare dentro la trincea e massacrare chiunque prima con i fucili, poi con le baionette, poi con le pistole, poi con mazze chiodate e coltelli.
Fin dai primi colpi gli uomini del 151° vedono che qualcosa non va.
Gli artiglieri sbagliano l’alzo e i proiettili finiscono vicini, a volte addirittura entrano nella nostra trincea, sopra il ricovero dei feriti o nelle fosse comuni, sparpagliando ovunque brandelli umani. Il Maggiore Marchese, subito dopo l’inizio del bombardamento, a colazione non mangia niente e ordina gli venga portata la fiasca del cognac. Alle 10 l’ha finita e chiede gli portino il marsala. Viene visto entrare e uscire dagli alloggi pallido, in preda a una strana frenesia, mentre impartisce ordini insensati: al sergente Nogarin ordina di andare in ricognizione e aggiunge che siccome morirà, deve portarsi un sostituto.
Verso le nove cammina nervosamente senza meta, la mano sulla fondina, ripetendo a mezza voce che verranno uccisi tutti; manda ordini farneticanti alle altre compagnie tramite i ciclisti. Uno, nel portare ordini, rimane ferito al braccio con una granata e si ferma a farsi medicare. Quando torna al cospetto del Maggiore lui gli fa sfasciare il braccio, esamina la ferita, si toglie di tasca l’orologio e lo guarda negli occhi:
“Ti do 13 ore di vita” dice “Allo spirare della tredicesima se non ti avrà ucciso il piombo austriaco ti ucciderò io”.
Dopodiché ordina che al ferito vengano affidati i compiti più rischiosi, esce dall’alloggio e comincia a sparare su altri portaordini che vede passare, uccidendone uno e ferendone tre. Dice al suo attendente di mettere a posto i propri effetti personali da mandare alla famiglia e gli raccomanda di fare lo stesso: “Tanto quest’oggi voli in aria anche tu”, dice.
Verso le 10, con il bombardamento ancora in corso, il Maggiore ordina a un tenente di andare a tagliare i fili dei reticolati, poi ordina a due pattuglie di esploratori di verificare i danni prodotti dal tiro. Loro lo fanno, e vengono smembrati dal fuoco amico. Solo quando un ufficiale fa notare al Maggiore che stanno ancora bombardando, lui revoca gli ordini e si sfoga sparando e ordinando di sparare contro i portaordini delle altre armi che passano per i camminamenti, poi si dirige verso l’entrata di una caverna dove si trova il tavolo ufficiali e lo Stato maggiore, così da essere più reperibili dai portaordini del Comando di Reggimento.
In un tunnel sono radunati i 200 uomini della 3° compagnia del 1° battaglione del 151°, quasi tutti adolescenti o giù di lì. Si riparano dal bombardamento e affrontano il momento più mostruoso e meno cinematografico della guerra, cioè l’attesa. Aspettare di sapere se ucciderai o sarai ucciso per un colpo di fortuna, per un errore, quasi mai per abilità o merito – fatto salvo un coraggio sovrumano.
Aspettano da quasi dieci ore.
Alle 14, sopra il loro tunnel, piove un proiettile d’artiglieria pesante.
Non c’è modo per descrivere l’esplosione di un proiettile simile, è come se l’intero emisfero terrestre andasse in pezzi. La caverna regge, ma parecchi pezzi si staccano e si schiantano sui ragazzini; il comandante di compagnia e tre soldati restano uccisi, c’è fumo, una ventata rovente e le candele si spengono. Nel panico, qualcuno grida che la caverna sta crollando e tutti si riversano verso l’uscita.
All’ingresso il Marchese sente il tramestìo, così manda il tenente Salis a vedere cosa succede. Lui riferisce che non c’è niente di preoccupante, solo un mezzo crollo e tanto spavento. Il Marchese gli ordina di tornare dentro e far uscire tutta la 3° compagnia, poi dice al caporal maggiore Masala, di guardia all’ingresso, che non appena usciranno dovranno deporre le armi e prepararsi a essere fucilati.
Un ufficiale di fianco al Maggiore mormora qualcosa, a quel punto Marchese gli urla contro dandogli del vigliacco, estende gli insulti agli altri ufficiali dando loro dei traditori della Patria, sfila la rivoltella dalla fondina e usandola per indicare il tunnel chiama la Brigata Sassari “un’accozzaglia di uomini pavidi”.
Nessuno apre bocca, perché è l’ufficiale più alto in grado e l’insubordinazione ha una punizione sola.
Appena usciti i ragazzi, Marchese punta la rivoltella contro il Tenente Rabino intimandogli di prendere un soldato ogni dieci. Rabino esegue l’ordine mentre tra i ragazzi partono grida di suppliche o di rabbia. Proprio in quel momento passa il tenente Infantino, diretto alla trincea per predisporre e organizzare le ondate dell’assalto. Marchese lo ferma puntandogli la pistola contro e chiamandolo “traditore della patria” gli dice che verrà fucilato anche lui, ma che prima dovrà formare un plotone per fucilare gli uomini scelti da Rabino.
I ragazzi vengono messi al muro mentre pregano di ricordare la propria famiglia o supplicano di essere graziati. Tra loro c’è un ragazzo di vent’anni appena compiuti, Maceddu. I compagni urlano a loro volta di frustrazione.
Il Tenente Salis capisce che la situazione sta per precipitare e via telefono contatta il Comando di Reggimento perché mandi i Carabinieri o un ufficiale di grado superiore. Mentre i ragazzi da fucilare vengono legati a pali improvvisati, il colonnello Graziani manda il tenente Mariani assieme ai due caporal maggiori ciclisti, Cardi e Speranza, entrambi armati di moschetto. Mariani arriva mentre Marchese è intento a ingiuriare i ragazzi che stanno per essere fucilati.
Lo vede stravolto, con l’uniforme sbottonata, la rivoltella in pugno, la faccia viola, gli occhi lucidi e fuori dalla testa. Guarda il capoplotone, Infantini, poi il plotone d’esecuzione, poi i condannati. Si capiscono con un’occhiata, o forse grida nella confusione; Infantini ordina il fuoco e il plotone esegue puntando le armi in aria. Subito dopo tre condannati si buttano a terra fingendosi colpiti, tranne Maceddu che in quel momento aveva gli occhi chiusi: si guarda, si tocca e sorride, incredulo.
Il maggiore Marchesi lo uccide a revolverate.
A quella vista, la Sassari comincia a urlare una selva d’insulti vaghi, bestemmie, minacce. Ed è un problema, dato che di lì a pochi minuti dovrebbero andare all’assalto e bisogna ridare loro le armi. Gli uomini rimasti nella grotta premono per uscire e salvare i loro fratelli e nella confusione si sente “sputate in faccia a quel vigliacco”, riferito al Marchese. Lui si volta verso la folla e risuonano due colpi di fucile. Marchese fa qualche passo, poi ci sono altri tre colpi. Marchese si porta le mani al petto e stramazza al suolo. Le sue ultime parole sono “anch’io muoio con tre palle nel petto, evviva l’Italia” e spira pochi minuti prima delle 15. Chi ha ucciso il Maggiore?
Non si saprà mai. Mitragliatrici austriache, ufficiali, caporali, Carabinieri, c’erano tutti. Viene accusato un soldato, Banu, caduto proprio durante l’assalto di quel giorno, che aveva detto “vero è che morirò anch’io, ma ho ammazzato anche lui”. Ma non ci sono prove. Alla fine, l’unico processo per fuoco amico si concluderà con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Adattamento dagli atti processuali n°450/210 del 26 maggio 1918 presso il Tribunale militare di Guerra del XXII° Corpo d’Armata intersecate al resoconto di Giuseppe Fiori, “Il cavaliere dei Rossomori, vita di Emilio Lussu”, Einaudi, 1985