Per capire meglio che cosa si va a votare domenica 6 maggio in Serbia, partiamo da qualcosa che appare ormai molto lontano: il sito web dell’ICTY, il Tribunale Criminale Internazionale per l’ex Jugoslavia. Cerchiamo la scheda di un imputato, Vojislav Šešelj. Accusato dei seguenti crimini: persecuzione su basi politiche, razziali o religiose, deportazione, atti inumani (trasferimento forzato) – (crimini contro l’umanità); assassinio, tortura, trattamento crudele, distruzione ingiustificata di villaggi, o devastazione non giustificata da necessità militari, distruzione o danno intenzionale arrecato a istituzioni religiose o educative, saccheggio di proprietà pubblica o privata – (violazione di leggi o usi di guerra). Su questi capi d’accusa è fondato il Partito Radicale Serbo, da cui nel 2008 i fuoriusciti di Tomislav “Toma” Nikolić hanno creato il Partito Progressista Serbo, l’attuale primo oppositore del Partito Democratico di governo, dato favoritosu Tadić alle presidenziali – e facilmente anche alle legislative.
Famoso resta il caso di Nataša Kandić, attivista di spicco per i diritti umani in Serbia, che nel 2005 accusò Nikolić di avere, ai tempi della guerra, nel 1991, ucciso due anziani ad Antin, nella Slavonia croata.
[ad]Condannata nel 2009 a risarcire Nikolić di 2000 euro per diffamazione, vinse in appello. Nikolić aveva ammesso di essere effettivamente stato lì in quel periodo, ma che da quelle parti non morì proprio nessuno, e lui non sparò mai un colpo. Eppure, proprio in quegli anni, lo stesso Šešelj sapeva elogiare Nikolić in quanto dimostrava “col suo personale esempio come si combatte per l’ideale serbo”. A molti questa apparirà oggi archeologia politica (o bellica), ma quando si tratta di bagni di sangue, il semplice passare del tempo non può essere di per sè sufficiente a purgare ogni male. Ed in fondo, la tanto decantata “svolta” progressista non è certo avvenuta quindici, ma quattro anni fa. Quattro anni fa ancora il Partito Radicale Serbo era unito, i progressisti portavano spille sui baveri con l’immagine di Šešelj, presidente di partito ed eroe serbo, almeno tanto eroico quanto Ratko Mladić, che il vicepresidente del Partito Progressista Serbo, Aleksandar Vučić (altro fuoriscito prezzolato dei Radicali), definiva eroe, e con la cui targa nel 2007 ribatezzava gloriosamente il viale “Zoran Djindjić” di Novi Beograd in viale “Ratko Mladić”. Ma se anche il 2007 fosse lontano, solo ad aprile 2012 Jorgovanka Tabaković, esponente di spicco del partito di Toma Nikolić, anch’essa – inutile dirlo – ex Radicale, ha dichiarato che Mladić è “un onesto soldato serbo, e con ciò un eroe”, aggiungendo che “quando avranno constatato e dimostrato che è un criminale, e qualcuno mi convincerà di ciò, io forse cambierò la mia opinione”.
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[ad]In tutto ciò Boris Tadić, presidente del Partito Democratico, ex-Presidente neodimesso della Repubblica e candidato in lizza per le presidenziali, in concomitanza con le legislative di domenica prossima, ha facile gioco per rispolverare l’adagio dei crimini di guerra. Argomento tra i meno gettonati, e che tutta la classe politica, di gran concerto e con la guida dei democratici per primi, ha spinto sotto al tappeto, evitando qualsiasi forma di lustracija, sia essa morale o politica, con la quale mondare il paese delle sue colpe, che ancora si porta, così pesantemente, sulle spalle. Quale diritto ha Tadić di chiamare in causa i Progressisti per le colpe di guerra, quando proprio lui, nel 2008, strinse un accordo di riappacificazione con il Partito Socialista di Ivica Dačić, già portavoce di Milošević durante l’infernale decennio 1990? E, come già disse qualcuno, com’è possibile parlare di riappacificazione quando non vi fu mai litigio? Vi era semplicemente, da una parte, un regime violento e antidemocratico, detentore della forza, dall’altra, un’opposizione pestata, cacciata, minacciata, picchiata. Oggi al governo, pronta senza imbarazzo e senza ragione apparente a mondare chi non deve essere mondato, macchiato per sempre dell’onta di aver fatto terra bruciata di un paese e del suo popolo. Eppure, per Tadić, che fronteggia oggi Nikolić come più temibile e concreto avversario alle elezioni, la Serbia di Milošević non è stata la Serbia del partito di Milošević, ma solo dei Radicali.
È in questo clima da bispensiero orwelliano che Dačić può trovare la faccia tosta di auspicare una società “giusta e serena”, e uno “stato democratico garante della pace, dello sviluppo dei diritti umani, della cittadinanza e della libertà – politica, socio-economica e culturale”. In fondo, unto dalle mani democratiche di Tadić, il Partito Socialista di Serbia non deve più rendere conto di nulla, non ha conti in sospeso, non dico con la Storia, ma con l’elettorato. Poiché la sua Storia, come si scopre dalle pagine del sito ufficiale, si riduce a una grigia cronologia, dal luglio 1990 al dicembre 2006, di sei congressi di partito, senza il minimo accenno al vecchio “Sloba”. Triste e burocratica, in fondo, nel miglior stile del socialismo post-jugoslavo del suo padre fondatore.
Così, mentre il futuro è sempre di là da venire, prodigo di facili promesse elettorali, prepariamoci alla prossima tesa giornata di urne, increduli di come questa neonata democrazia serba possa già puzzare tanto di vecchio. Torna alla mente, piano, un vecchio adagio che vent’anni fa ce lo annunciava, Viaggia Europa, non aspettare più per noi. / Non domandare troppo, ti farai una cattiva reputazione pure tu…
di Filip Stefanović