Il nostro cellulare non è un oggetto come potrebbe essere una lampada o un comodino; quello che succede al suo interno ci colpisce nell’intimità, proprio come se succedesse dentro casa nostra. Chi subisce rapine in casa attraversa tutte le fasi del lutto, ha un periodo di metabolizzazione che spesso lo porta a cambiare la disposizione dei mobili e ridipingere le pareti. La casa è l’unico posto al mondo dove possiamo esercitare completo controllo e vederla profanata ci segna; ci crea cioè dello stress, parola utile a sintetizzare panico, angoscia e paranoia. Lo stress uccide con ictus e infarti, o con il suicidio.
Come nasce lo stress in rete
Inconsciamente associamo le persone all’interno dello schermo come se fossero ospiti a casa nostra. Noi non portiamo in casa estranei, quindi se sono nel nostro cellulare sono per forza persone che ci interessano o di cui ci fidiamo. Sono la nostra comunità. Per questo in Internet sembra artificioso darsi del lei: se sei in casa mia, ci diamo del tu. Per questo in Internet a volte scriviamo cose che in pubblico non diremmo o diremmo meglio: se sei in casa mia, mi conosci e capisci quello che sottintendo. Per questo in Internet crediamo a bufale, anche le più inverosimili: ce lo sta dicendo qualcuno a casa nostra, proprio come se fosse la televisione.
Ora, immagina che durante una festa gli ospiti comincino a insultarti, a minacciarti, a gridare che ti meriti cose orrende, che ti faranno licenziare e altre oscenità. Li cacceresti di casa, ma non puoi. La tua intera comunità ti si rivolta contro e ti umilia sotto gli occhi della tua compagna, dei tuoi figli, dei tuoi amici senza che tu possa fare nulla per impedirlo.
Nomi e volti che prima ti sorridevano, ti mettavano like, che hanno a disposizione foto tue, dei tuoi cari e dei tuoi luoghi preferiti ora li stanno devastando. Mentre prendono le foto che hai in cornice per sfregiarle, prendono le foto delle tue vacanze per rintracciarti, non c’è nessuno che ti possa aiutare o difendere.
Ti meriti di.
Si merita di.
Te la sei cercata.
Tutto il mondo ti odia.
Non il mondo esterno, ovviamente. Quello manco sa chi sei o che sta succedendo, non gli frega niente e ha di meglio da fare. È il tuo mondo a odiarti, anche se sembra quello esterno. Ti telefona il capo incazzato a morte. Ti telefonano i colleghi. Gli amici veri. Sentirlo dire ad alta voce lo rende ancora più reale, finché ti ricordi che in un cassetto hai un pulsante magico capace di risolvere ogni problema. Magari sei una persona fragile, di sicuro sei disperato e incapace di ragionare, ma vuoi solo che finisca.
Così lo premi.
Questa sarà la versione ufficiale, almeno.
In realtà sei stato assassinato dalla folla, proprio come nel medioevo. Appena saputa la notizia, i partecipanti correranno a cancellare le tracce dei loro abusi e dopo qualche ora di angoscia dormiranno tranquilli, alla peggio diranno io ho solo condiviso. Mentre il tuo corpo viene interrato saranno su Twitter a commentare il festival di Sanremo e manco si ricorderanno di avere contribuito a un omicidio. Le grandi firme del giornalismo stringeranno le spalle: è il web, dopotutto.
La solita gogna social.
Ma cosa cazzo vuol dire solita?
Siamo davvero diventati talmente mediocri, talmente rincoglioniti da giocattoli e meme da esserci abituati a venire assassinati o rovinati da sconosciuti come vacche da macello? È diventato normale? Quanti linciaggi sono serviti perché ci assuefacessimo a questo schifo?
Perché una soluzione c’è sempre, volendola trovare.
I nostri antenati conoscevano bene le folle e avevano un rimedio molto efficace chiamato decimazione. Prendi il capopopolo – ovvero il primo delatore che ha condiviso – e poi peschi un commentatore ogni dieci appioppando multe da 10,000 euro. In caso si scopra che il commentatore non era nuovo a questo genere d’intrattenimento, raddoppi.
Poi vediamo quanta voglia c’ha qualcuno di commentare.