“It’s the economy, stupid” è lo slogan che nel lontano 1992 lanciò l’allora candidato alla Casa Bianca, Bill Clinton, nel firmamento della storia americana, facendo calare vertiginosamente tutti gli indici di popolarità dell’allora presidente in carica George H. Bush, poi sconfitto alle urne.
Gli strateghi della comunicazione del Partito democratico hanno di che imparare dall’esempio statunitense dopo anni di infelice e malriuscita propaganda sui fuochi d’artificio di Berlusconi e dei suoi alleati leghisti.
[ad]Dalla caduta del governo Prodi fino al plebiscito per il Cavaliere nel 2008, le parole d’ordine che hanno segnato l’immaginario politico degli italiani, nel bene e nel male, sono state tutte dettate dal campo del centrodestra. Il quale ha saputo proporre una piattaforma conservatrice non allineata al modello europeo ma schiacciata sulle posizioni oltranziste della Lega Nord in tema di immigrazione, in grado di intercettare i consensi della maggioranza silenziosa. Fino al colpo basso di Giulio Tremonti che a poche settimane dal voto si guadagnò la ribalta editoriale e politica con il saggio no global “La paura e la speranza”, capace di spiazzare lo stesso Fausto Bertinotti.
Al leader del Pd Bersani spetta un compito non certo facile. Il partito di cui ha preso le redini soffre un’ansia da prestazione, motivata dall’entusiasmo che i sondaggi avevano rilevato a poche settimane dal suo insediamento e che nei primi mesi dell’anno è calato fino a rasentare la soglia del 26% delle elezioni europee, con Franceschini segretario.
Bersani ha tutto l’interesse a trasformare il voto del 28 e 29 marzo in un test sul governo Berlusconi, stando però attento al rischio che si trasformi in un referendum pro o contro di lui, il cui esito non potrebbe che essere negativo per le file dell’opposizione.
L’arma migliore a sua disposizione sarebbe puntare sull’economia, facendo tesoro dell’associazione stretta tra la percezione che i cittadini hanno dell’andamento economico e il giudizio su chi ricopre la funzione di governo.
A diciotto mesi dallo scoppio della crisi, in Italia gli accenni di ripresa tardano a manifestarsi. Se le banche italiane hanno retto al tracollo che non solo in America ma anche in Europa ha polverizzato decine di istituti di credito, grazie ai gap strutturali del sistema nazionale (la loro modesta internazionalizzazione e le dimensioni contenute), per il sistema industriale e produttivo italiano all’orizzonte non ci sono prospettive rosee. I licenziamenti sono all’ordine del giorno e la vicenda di Termini Imerese è solo la punta dell’iceberg di un malessere che dilaga in tutto il Paese.
Seppure puntualmente stoppato da Tremonti, plenipotenziario in materia, il premier fino a qualche settimana fa ha fatto cullare nella testa degli italiani la promessa di un abbassamento delle tasse, prospettando l’agognata riforma fiscale. Allo stesso tempo, il governo si fa vanto di rispettare i vincoli imposti dall’adesione ai Trattati europei che impediscono per i prossimi anni qualsiasi riduzione della pressione fiscale.
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In questo altalenante gioco delle parti, tra ventate di liberismo e ortodossia europeista, il segretario del Pd parte avvantaggiato rispetto ai vecchi big del centrosinistra nell’affrontare il compito. Mentre le leadership di D’Alema e di Veltroni si contrapponevano a quella di Berlusconi con la forza di una leadership equivalente, tutta centrata sull’umoralità e sul carisma, senza riuscire a contrastarla, Bersani rivendica con orgoglio la sua lunga storia di amministratore. Il carisma inteso come arma vincente nei confronti degli elettori non fa parte delle sue corde. Un po’ come Prodi, che non a caso nel 1996 lo chiamò con sé a Palazzo Chigi, allontanandolo dall’incarico di Presidente della Regione Emilia Romagna.
Per molti l’uomo di Bettola rappresenta il ministro delle lenzuolate di liberalizzazioni che nella breve stagione dell’Unione segnarono i giorni più popolari del governo. Il suo essere un uomo del Nord, l’apprendistato politico in terra rossa eppure patria del buongoverno (almeno fino ai recenti scandali della giunta Delbono), gli incarichi in dicasteri tecnici come l’Industria e i Trasporti sono punti che lo qualificano come politico pragmatico e competente.
Bersani ha tutte le carte in regola per lanciare al governo in campagna elettorale una sfida che parta dall’esame delle condizioni economiche del Paese, oltre che disegnare proposte-spot nella cartellonistica per le strade. In questo modo, una strategia che finora è rimasta limitata alle alleanze sarebbe capace di parlare concretamente ai cittadini, aprendosi a quelle categorie – operai e ceti produttivi del nord – che negli ultimi anni hanno scelto Pdl e Lega.
A poco più di sei settimane dal voto, è ragionevole pensare che nessuno farà cappotto. Eppure, a conferma del notevole significato che le elezioni regionali ricoprono sul governo in carica, è bene ricordare che nel 2005 si andava al voto dopo quattro anni di governo in cui i conflitti interni da un lato fra Fini e Tremonti e dall’altro fra Follini e Berlusconi avevano logorato il fronte del centrodestra. Berlusconi fu costretto dalle “spine nel fianco” della maggioranza a salire al Quirinale e formare un nuovo governo, dopo la sconfitta 12 a 2. D’Alema cinque anni prima si era dimesso dopo aver perso 8 a 7.
Quando i risultati saranno chiari, per il Popolo della libertà l’incognita principale sarà rappresentata dal rafforzamento delle pretese padronali di Berlusconi, anche rispetto ai suoi avversari interni. Il Pd, invece, vuole scongiurare il rischio che questa volta le ripercussioni del voto ricadano per intero sul fronte dell’opposizione. Tra parentesi, Veltroni rassegnò il suo incarico di segretario del Pd dopo la sconfitta di Soru in Sardegna proprio un anno fa.