Milano è quella città dove si beve, si ride, si mangia e si pippa con quella frenesia isterica di chi ha il terrore di vedere, pensare o sentire. La generazione di Sex and the city, addestrata a risolvere problemi esistenziali citando nomi di psicofarmaci, qui ha trovato la propria capitale. Brulica di vita e soldi, benessere e follia, droga e bugie.
La sfilata a cielo aperto di corso Como, il finto svacco in parco Forlanini, le luci fuxia della Gintoneria, le retrospettive in zona C, l’annoiato snobismo del naviglio grande, dove l’establishment dell’editoria ancora si crede antagonista, beve vino e parla del paese reale come fossero miti greci zeppi di dèi crudeli e umani sprovveduti.
Milano sushi e coca, Milano di NoLo, Milano che il quartiere Isola? No, dai. Non devi essere un tristomane. Ti serve un social media blacksmith o una mascherina sintattica.
Nelle strade laterali c’è il resto del mondo.
Bar con bottiglie impolverate ogni mezzo metro, muri anneriti con divi di Hollywood su cornici a giorno, telecamere e prolunghe a vista, slot machine che cantano il loro richiamo schizoide agli Ulisse che fatti non foste per viver come bruti, #einvece. Il televisore è sintonizzato sui numeri del lotto, il rosario della generazione partita per cambiare il mondo e finita a grattare schedine sognando le cosce delle badanti. Sul muro è appiccicato con lo scotch la fotocopia della fotocopia di un meme motivazionale: sorridi! Non arrabbiarti! Non pensare troppo! Sii ottimista!
Sotto, uno shaker anni ’80 è diventato un portacannucce.
In questi posti gli aspiranti milanesi, provenienti dalle più sperdute province d’Italia, entrano solo per comprare sigarette e dileguarsi. Quasi come se stare lì dentro li contaminasse. I milanesi di nascita, invece, li adorano; nella città di finzione e friendzone il massimo del lusso è la genuinità. Trattorie qualsiasi di provincia, se sono in pieno centro, fanno il pienone ogni sera.
Devi prenotare, nei posti genuini. Luoghi ove visual, architetti, pubblicitari, scrittori sussurrano eccitati: imperdibile, figa. Io fatturo white e fatturo black. Ognuno ha un proprio vezzo alimentare. Chi non mangia carne, chi non beve vino con i solfiti, chi è insofferente ai latticini, chi al glutine, chi ai farinacei, chi non si fa problemi a sniffare roba che stava nel retto di un brasiliano ma mangiare la lingua gli fa impressione.
A Milano divertirsi è un obbligo morale, ma non vedi persone divertirsi nei locali, ai Magazzini generali – il Magazza, detto – o al Plastic. Devi aspettare l’after, quando alcool e stanchezza riescono ad annullare le tensostrutture necessarie a vivere qui e alle sei di mattina, finché non sei a letto, non te ne frega più un cazzo.
Allora sei felice.
Compri un pacchetto di Chesterfield blu da un venditore di rose che si finge del Bangladesh perché si vergogna di dire che è pakistano, chiedi l’accendino a un barese che parla male dei terroni, la editor di una grossa casa editrice ti porta a casa e ti chiede di picchiarla senza morsi sul collo, però, perché poi il suo capo è geloso.
“Adesso che si fa?” domandi a due ragazze giovani a una festa. Loro, prendendosi per mano, rispondono “adesso la serata può prendere una piega molto costosa”.
“Curiosità, di quanto parliamo?”
“1200 euro”
“Ghesboro!” sbotti, e l’intera città si gira.
Milano è quella città che fa sentire tutti terroni, anche un veneziano.