Quando il Senato romano venne a sapere che gli Etruschi guidati da Porsenna stavano arrivando a Roma per conquistarla, capì subito che l’ago della bilancia l’avrebbe fatto il popolo. La paura e il malessere fanno prendere decisioni sbagliate, e c’era la possibilità che i romani, credendo di salvarsi o migliorarsi la vita, approvassero quel colpo di Stato.
Agì in fretta. Mandò a prendere quanto più frumento possibile così da avere provviste per un eventuale assedio; tolse il commercio del sale dalle mani dei privati – che ormai sparavano prezzi deliranti – e lo rese monopolio di Stato; tolse dazi e tributi dalle spalle dei più poveri e si assicurò che i benestanti ne versassero secondo coscienza.
Come operazione psicologica funzionò bene. I romani si erano ricordati per cosa combattevano appena in tempo, quando l’esercito di Porsenna fece capolino.
Nelle campagne erano già presenti presidi armati al lavoro per tagliare al nemico ogni via d’accesso e lasciare che il Tevere facesse da muraglia, ma non avevano lavorato abbastanza in fretta. Restava il ponte Sublicio, il più antico di Roma, che avrebbe fatto da autostrada alle truppe nemiche. Gli Etruschi raggiunto il Gianicolo ci si lanciano a capofitto e i romani di guardia al ponte fanno per scappare, quando una guardia, Publio Orazio Coclide, li deride: dove vogliono scappare, se il nemico li raggiunge comunque tra pochi minuti dentro casa? Il dubbio fa presa sui romani, e lui ne approfitta: ordina di demolire il ponte con qualunque mezzo mentre lui blocca l’avanzata dell’esercito nemico.
Perché il ponte Sublicio è stretto.
Orazio non deve ammazzare a coltellate un esercito: solo tre uomini alla volta.
Quando gli etruschi lo vedono andargli incontro da solo restano allibiti e si fermano, perché la guerra ai tempi di lance, spade e scudi richiede una dose di coraggio e sangue freddo oggi impensabile. Un uomo che fa un atto tanto folle o è pazzo, o è talmente sicuro di sé da sapere di avere il favore degli dei, oppure è un semidio lui stesso. Tutte possibilità che nel 508 a.C. prendevi molto sul serio, quando sul piatto c’erano la tua pancia e un sacco di cose affilate.
Al fianco di Orazio accorrono Spurio Larcio e Tito Erminio. Gli etruschi attaccano, ma i tre resistono all’urto. Tra frecce, lance e spade, riparati dietro allo scudo, tengono testa a uno degli eserciti più potenti del mondo mentre alle loro spalle il ponte frana. Alla fine, rimasto solo e sul punto di soccombere, Orazio si getta nel Tevere inseguito da una tempesta di frecce, ma se la cava.
Gli etruschi si rassegnano all’assedio.
Si accampano lì e fanno un cordone di navi, isolando Roma da qualsiasi commercio in entrata o uscita. Mentre nei film gli assediati escono a combattere, nella realtà la norma era stare al sicuro dietro le mura pregando gli assedianti finissero i viveri prima. Possono durare anni: il più lungo della Storia è quello di Ceuta, durato 21 anni, ma di norma l’assedio logora prima i nervi dello stomaco.
La prospettiva di morire di fame non andava d’accordo con la filosofia romana, in cui una morte senza gloria bastava a riscrivere una vita impeccabile e viceversa. Una notte, tale Gaio Muzio Cordo, spossato dalla situazione, decide di uscire di nascosto da Roma, intrufolarsi nell’accampamento nemico e assassinare Porsenna in persona.
Quasi ce la fa.
Attraversa il Tevere a nuoto, sbuca nella vegetazione, si asciuga e si mescola ai soldati, in cui è uno dei tanti volti giovani e affamati. Arriva alla tenda del generale davanti a cui vede due uomini in piedi, circondati di guardie, mentre stanno distribuendo le paghe. Sa di avere una sola possibilità; pugnalato a morte uno, verrà immobilizzato o ucciso prima di riuscire a fare lo stesso con l’altro.
Rimane ad osservare, finché un soldato si insospettisce. A quel punto scatta e pianta il pugnale nel cuore dell’alto ufficiale di Porsenna, che muore sul colpo. Le guardie lo disarmano e lo portano al cospetto di Porsenna, e Muzio Cordo non prova nemmeno a fingersi etrusco o a giustificarsi.
«Sono un romano, mi chiamo Gaio Muzio. Volevo uccidere un nemico da nemico, e non ho paura di morire quanta non ne ho di uccidere. Guarda» dice, alzando la mano «Questo è il valore che dà al proprio corpo uno che aspira alla gloria di Roma».
Poi la infila in un braciere ardente, e la tiene fissando Porsenna negli occhi, senza un gemito o una smorfia.
Come sul ponte, il coraggio folle non è mai un buon segno. Porsenna dà ordine di rilasciarlo e lo grazia, ma Gaio Muzio scuote la testa. Dice che lui non è rilevante. Lì fuori, nel buio, ci sono altri trecento uomini come lui, e che prima o poi uno di loro riuscirà ad assassinarlo proprio lì, in quella tenda, una di queste notti. Muzio torna a Roma dove gli amputeranno la mano, e prenderà il nome di Muzio Scevola.
Secondo alcuni, è da questa storia narrata da Tito Livio che viene l’espressione “mettere la mano sul fuoco”.
Porsenna ritirò l’esercito, anche se è improbabile sia stato per quel motivo. È una storia talmente lontana – e le fonti così scarsamente affidabili – che ci sono due possibilità. La prima è che i romani abbiano pagato somme stratosferiche per comprare la pace, e la seconda che Porsenna in realtà abbia vinto e occupato Roma per qualche tempo.
Sia come sia, restano due storie che varrebbero un film.