Il discorso di Xeni – La paura
Quando una prostituta fa una domanda a una persona sbagliata, in quarantena.
È da mezzogiorno che dal primo piano provengono tonfi, scricchiolii, grida e gemiti. Fuori, a parte la camionetta dei poliziotti svizzeri, c’è solo la primavera con i suoi temporali improvvisi. In cucina, Xeni salta da un fornello all’altro, tirando fuori dal forno piatti che lascia raffreddare, mentre altri vengono messi nel grosso frigorifero.
Alle otto e mezza di sera è soddisfatta, versa dei pistacchi in una ciotola d’argento e va in salotto, dietro al bancone. Mette del ghiaccio nello shaker, un gemito particolarmente forte le fa guardare il soffitto. Abbassa la testa scuotendola, mette del ghiaccio in una coppa Martini, fruga nell’armadietto da cui proviene un tintinnare di bottiglie.
«Ne fai uno anche a me?» dice una voce femminile «Qualsiasi cosa sia va bene.»
Xeni alza la testa e vede Elettra, guance arrossate e boccoli scarmigliati, stravaccata a gambe aperte sulla bergere. Ha due autoreggenti strappate, intimo nero e una vecchia maglietta larga dei Subsonica. Sta ad occhi chiusi. Xeni mescola due liquori, versa in due bicchieri e li porta al tavolino con i pistacchi. Guarda il petto di Elettra alzarsi e abbassarsi, esausto. Fa un colpo di tosse e lei si riscuote, tirandosi su e accavallando le gambe.
«Stasera avevo fatto pesce, ma visto quanto siete andati avanti passerò a qualcosa di più sostanzioso» dice Xeni, porgendole il bicchiere «Tanto in frigo c’è posto.»
«Anche di sopra, se vuoi.»
Xeni accenna una virgola di sorriso: «A chi tocca, stasera, vostra Maestà?»
«Clelia.»
«Quella con gli occhi azzurri-azzurri? Forte.»
«Sì, forte» ripete Elettra, guardando il pavimento «Tu non hai paura, vero?»
«Di cosa?»
«Di questo. Del virus, del contagio. Del fatto che potremmo essere morti, o che l’intero paese potrebbe sprofondare in… non lo so in cosa.»
«I nostri nonni avevano i carri armati tedeschi e le decimazioni. I nostri bisnonni le trincee e la cancrena. I nostri genitori le bombe negli aerei, nei treni, nelle banche. Certo che ho paura, ma che ti aspettavi?»
«In che senso?»
«Ogni generazione ha la sua tragedia, Elettra. Questa paragonata alle altre è un gioco. Il grosso problema sarà lo strascico economico, più che i morti, ma sopravvivremo. Forse la società cambierà per un po’, o forse no. Io c’ero quando Chernobyl fece piovere radiazioni sull’Europa. Non potevi uscire a giocare, non dovevi prendere la pioggia, guai a mettere il piede nelle pozzanghere! Niente funghi, niente verdura, niente carne macellata dopo quel giorno, perché avevano mangiato erba contaminata.
Stavi a casa a guardare il mondo deserto, flagellato da un mostro invisibile che uccideva anche in differita, mangiando scatolette e domandandoti se quel temporale t’ha fatto respirare la leucemia. C’ero, l’ho visto. Ho visto gli asili con le suore che dicevano ai bambini che nei prati c’erano le fate cattive, le nanocurie, e che gli angeli stavano cercando di scacciarli. C’ero quando vedevo i nasini dei bimbi a fissare i prati e ogni tanto qualcuno gridava “l’ho vista! L’ho vista! Ho visto la nanocuria!” e tutti giù a vedere. Ho visto com’è finita.»
«Come?»
«Con il fatto che oramai le radiazioni erano dovunque, erano entrate nella terra, nel cibo, nell’acqua, nell’aria. Non aveva senso difendersi, era economicamente impensabile. Così abbiamo fatto finta di niente. Abbiamo ricominciato a vivere e a preoccuparci di idiozie, pur di non pensare al fatto che un risotto di funghi aveva le stesse radiazioni di tre tac, forse. Abbiamo seppellito i morti di cancro e tumore e leucemia, dato la colpa a Dio, allo Stato, ai comunisti, finché ce ne siamo dimenticati. E quando abbiamo guardato la serie TV abbiamo detto oooh, ma dai, davvero è successo?»
«Ma questo non è una radiazione. È un virus.»
«E allora che venga!» sbotta Xeni «Che venga, avanti. Chi è, ‘sto pezzente? Da quant’è qui? Due anni? Uno? La nostra specie ha duecentomila anni. Tra dieci salteranno fuori i revisionisti a dire che non è mai esistito alcun coronavirus, era un gombloddo.»
Sono le nove e mezza di sera, gli uomini scendono in salotto strascicando i piedi e deglutendo a vuoto dalla fame. Guido ha due graffi sul viso e un ematoma sul collo, Jackson ha addosso solo un accappatoio e tiene mezzo sigaro all’angolo della bocca, crolla sul divano come se le gambe non lo reggessero. Le ragazze arrivano alla spicciolata, occhi socchiusi e sorriso divertito. Dietro il bancone, Xeni li passa in rassegna con lo sguardo: «Direi che saltiamo l’aperitivo e andiamo diretti alla cena.»
Teste annuiscono.