Benché non siano mancati all’inizio di quest’emergenza “coronavirus” in Italia segnali di ottimismo, è chiaro a tutti ormai che lo scenario economico che abbiamo di fronte non sarà certo roseo.
Con un documento consegnato alla commissione Bilancio del Senato, L’Istat rivela che l’attuale contesto di incertezza economica, dovuta all’epidemia di coronavirus in Italia, “non ha precedenti nel dopoguerra”: i limiti alla circolazione di merci e persone, nonché il blocco delle attività produttive sono, infatti, tali da poter provocare uno shock di dimensioni inimmaginabili all’economia internazionale“.
Coronavirus Italia ed economia: gli effetti del blocco delle attività
L’ultimo decreto del governo che blocca le attività produttive non essenziali fa discutere non solo Confindustria e sindacati. Il decreto – l’ultimo per contrastare l’emergenza coronavirus in Italia – è ora in discussione alla Commissione Bilancio del Senato. E in commissione si leggono con preoccupazione i dati forniti dall’Istituto nazionale di statistica: “il gap di produzione/valore aggiunto – si legge nel documento dell’Istat – si determinerà in tutta la sua ampiezza nel secondo trimestre, con tutti gli indicatori e le statistiche relative all’economia e al mercato del lavoro”.
Sono, infatti, quasi una su due le imprese attive, quelle cioè che non fanno parte dei settori le cui attività sono state sospese per l’emergenza coronavirus in Italia: si tratta, sempre secondo l’Istat, di quasi 2,3 milioni di unità su 4,5 milioni (ovvero il 48,7% del totale).
Se si pensa che il valore aggiunto generato da queste imprese (considerando anche gli indotti) ammonta a circa 512 miliardi di euro all’anno (vale a dire circa due terzi del Pil) ci sono ragioni fondate per essere allarmati.
A destare preoccupazione sono inoltre le ripercussioni che una crisi di tale portata potrebbe avere sul mercato del lavoro: sono 7,9 milioni i lavoratori impiegati nelle unità produttive che appartengono ai settori attualmente non attivi, a fronte di 8,8 milioni di occupati in imprese in funzione. Quasi la metà, dunque.
Si temono danni anche al settore export, non solo per il fisiologico calo della domanda, ma per il blocco delle attività di molte aziende esportatrici, benché la loro percentuale sia più ridotta rispetto alle imprese non esportatrici (51,2% contro il 48%).
A soffrire di più del blocco produttivo è la grande azienda: le attività pari al 71,6% delle grandi aziende con 250-500 addetti e al 67,6% delle grandi fabbriche con più di 500 addetti sono sospese per le misure anti-coronavirus in Italia. Solo la metà delle micro-imprese (con meno di 10 occupati) non prosegue le proprie attività, mentre il blocco riguarda il 58,7% delle piccola impresa e quasi il 70% della media imprese.
Far fronte allo “shock”: in campo il piano Coronabond
Appare chiaro, dunque, come siano ormai improrogabili interventi di natura economica da parte dello Stato a sostegno delle imprese in affanno (specie le PMI e la micro-impresa, diffusissime in Italia), nonché dei lavoratori in quarantena, dipendenti e autonomi, a cui va assicurata una continuità di reddito.
Intanto, proprio in queste ore, si sta tenendo un vertice europeo in video-conferenza, nel quale si discute la creazione dei “Coronabond” per fronteggiare la crisi economica dovuta all’epidemia di coronavirus in Italia, Spagna, Francia e nel resto d’Europa.
In una lettera inviata al Presidente UE, Charles Michel, firmata da Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Italia, si ribadisce la necessità di “lavorare su uno strumento comune di debito emesso da una istituzione europea per raccogliere fondi sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli stati membri, assicurando così finanziamento stabile di lungo termine per le politiche necessarie per contrastare i danni provocati dalla pandemia”.
Germania e Olanda hanno già fatto fronte comune per il “no”, ma la partita è ancora aperta.