Oggi ci stupiamo degli albanesi, ieri loro si stupirono di noi
L’Italia ha poca memoria, ma alcuni ragazzini del 1991 sanno bene perché gli albanesi ci aiutano.
Nel 1985 muore Enver Hoxha, dittatore comunista e fanatico maoista che aveva rotto con Tito perché lo considerava troppo moderato. Lascia uno Stato ridotto a meno del terzo mondo. In Albania non si può uscire né entrare, non esiste proprietà privata, chi contesta viene giustiziato in piazza e si può votare un solo partito, l’unico: il Partito del Lavoro dell’Albania. Viene definita “una prigione a cielo aperto”.
Dopo Hoxa seguono governi instabili che compensano errori con orrori: la polizia diventa ancora più aggressiva e la qualità della vita precipita.
Quando nel 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino, l’economia albanese è al collasso. Il reddito pro capite annuo è di 750 dollari, i diritti civili sono azzerati. I cittadini, nascosti in casa, puntano le antenne della televisione verso l’Italia e sognano. Trasmissioni come La ruota della fortuna, Giochi senza frontiere, Non è la Rai, il Karaoke, per loro sono la prova che dall’altra parte del mare c’è un paradiso di benessere, libertà, bellezza e futuro.
Così decidono che è meglio morire provando a raggiungerlo che restare lì a morire di fame guardandolo.
L’8 agosto 1991, a Durazzo, il comandante della nave mercantile Vlora, Halim Milqui, sta sbarcando le scorte di zucchero prese da Cuba. Sente rumori sul molo e vede una folla di civili sfondare il cancello e salire a bordo. Sono decine, poi centinaia, poi migliaia. Alcuni sono armati e lo minacciano di riprendere il largo per portarli in Italia. Non ha scelta, e così facendo si presenta al largo di Brindisi con 20,000 anime.
Le foto fanno il giro del mondo.
Uomini, donne e bambini ridotti in stati pietosi e denutriti raccontano ai giornalisti orrori e miserie impensabili. L’ONU valuta quale sia la soluzione più conveniente a livello economico e politico, mentre il governo italiano si rende conto che sta per affrontare – da solo – un esodo di proporzioni bibliche.
Ci vuol poco a capire che i profughi non caleranno, anzi, aumenteranno. Tra i disperati che scappano dalla fame si nascondono banditi che li torturano o derubano del poco che possiedono, e ne approfittano per organizzare traffici di droga ed esseri umani. Andreotti decide che il problema va risolto alla radice, contatta il governo albanese e si offre di aiutarlo con l’unico personale che ha a disposizione: i soldati di leva.
Nel 1991 era ancora obbligatorio fare un anno sotto le armi. In quell’Italia così distante e diversa non esistevano Internet, Expedia, bed and breakfast; molti diciottenni uscivano dal proprio paesino solo in quell’occasione. Quando viene loro proposto di andare in Albania per un’operazione umanitaria – con stipendio 1200 dollari al mese, circa 2,400,000 di lire dell’epoca – la prendono bene. Firmano, salutano la famiglia, fanno i bagagli e s’imbarcano a bordo di un Chinhook diretti verso un paese che sta sprofondando nel medioevo.
A questo va aggiunto che a nessuno Stato piace l’idea di vedere truppe straniere sbarcare sul proprio territorio, quindi l’allora primo ministro albanese pone una condizione: militari va bene, ma devono essere disarmati. L’Italia acconsente, con l’unica eccezione dei carabinieri del Tuscania che hanno compito – anche – di polizia militare.
L’operazione Pellicano inizia il 2 settembre 1991.
L’idea è semplice: dissuadere l’emigrazione fornendo aiuti e protezione affinché i civili possano ricominciare una nuova vita. Purtroppo l’Albania è lo Stato più chiuso del mondo; le comunità vivono in paesini arroccati tra le montagne tra strade sterrate, spesso assediati da bande armate oppure ostaggio di ribelli che van poco per il sottile. Portare aiuti in quelle condizioni è difficilissimo per logistica e per il salasso economico. Per ogni miliardo di lire che l’Italia spende in aiuti umanitari, trasporto e sicurezza le costa cinque volte tanto.
Nessuno di loro è preparato alle condizioni che troverà lì, ma mai quanto gli albanesi che pregano per un aiuto e vedono arrivare dal cielo elicotteri militari. Molti nei villaggi scappano credendo si tratti della sempre minacciata invasione imperialista, poi restano allibiti quando dai chinhook sciamano fuori frotte di ragazzini.
Impiegano pochissimo a guadagnarsi il favore della popolazione, complice il fatto che tutti capiscono l’italiano e soprattutto hanno una cosa in comune: la televisione. Fiorello, Raffaella Carrà, Bruno Vespa, Ambra, sono argomento di conversazione e dibattito, i soldati vengono invitati a pranzo e tempestati di domande. Poi ci sono calcio, cucina, vino. Agli italiani basta una settimana per conquistarsi l’affetto dei civili e a improntare una strategia di aiuti e difesa.
Banditi e mafiosi si guardano bene dal gironzolare attorno alle postazioni, e quando lo fanno è per capire che aria tira. Del resto, come al solito, noi obbediamo agli ordini a modo nostro: disarmati sì, ma in caso di problemi ci sono navi cariche di armi col Battaglione San Marco pronto a intervenire.
In poco più di due anni vengono trasportati e distribuiti oltre 750,000 tonnellate di viveri e medicinali, gli elicotteri fanno 1700 ore di volo, gli aerei 6100. Tra Durazzo e Valona vengono fatti 200,000 interventi sanitari con attrezzature, specialisti e farmaci arrivati dall’Italia. La missione costa 20 miliardi di lire al mese. Gli albanesi imparano a fidarsi di noi, e quando anche l’ONU interviene con una missione interforze, loro continuano a volerci come garanti in qualsiasi trattativa.
Quando l’operazione finisce, mentre la bandiera italiana viene ammainata a Tirana, il primo ministro albanese Alexsander Meksi dichiara:
“L’operazione Pellicano è stato il simbolo della correttezza di un’amicizia tra due popoli che gli albanesi non dimenticheranno mai”.
Oggi, a distanza di 27 anni, mentre l’Europa prende tempo o fa dichiarazioni vergognose, mentre il resto del mondo prima ci deride e poi ci emula, mentre l’Unione europea fa una delle peggiori figure mai viste dalla sua nascita, l’Albania ci manda 30 medici, uno per ogni anno passato da quando ce ne siamo andati. Non solo perché gli albanesi hanno un senso dell’onore assai marcato, ma perché forse non importa se qualcuno ti aiuta a casa tua o a casa sua: conta se t’aiuta o no.