Ben sappiamo che il rapporto di lavoro è fondato non soltanto sulla fiducia tra le parti (datore di lavoro e dipendente), ma anche sulla professionalità di chi mette in campo le sue energie e capacità per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Non solo: ci sono anche delle regole di comportamento – che fanno da contrappeso ai diritti del dipendente -, ovvero una sorta di “codice di condotta”, che deve sempre ispirare le azioni del lavoratore subordinato sul luogo di lavoro. Egli infatti deve rispettare il capo ed adottare un comportamento rispettoso verso i propri colleghi, quindi consono all’ambiente in cui si trova. Facciamo allora chiarezza e vediamo di seguito quali sono queste regole che il lavoratore non deve mai dimenticare, per non rischiare di essere legittimamente licenziato. Contestualmente vediamo più da vicino alcuni rilevanti diritti collegati.
Diritti e obblighi a lavoro: il quadro di riferimento
Dalla legge vigente e dalla corposa giurisprudenza in materia di diritto del lavoro e controversie tra dipendente e datore di lavoro, possiamo trarre che sono fondamentalmente tre gli obblighi o doveri del prestatore di lavoro verso il capo. Il primo è il dovere di fedeltà, che si sostanzia in senso ampio in tutti quei comportamenti del lavoratore, fondati su buona fede, correttezza e lealtà nei confronti del capo e dell’azienda, adottati sia durante l’orario di lavoro che al di fuori di esso. Nello specifico, tale obbligo trova espressione nel divieto di porre in essere affari, in qualche modo concorrenziali con il datore, nell’identico settore nel quale questi opera (dovere di non fare concorrenza). Inoltre, al fine di essere fedele, il lavoratore deve mantenere segrete tutte le informazioni (dovere di riservatezza) che ottiene per il fatto stesso di essere sul luogo di lavoro: non deve insomma render noti a terzi i fatti inerenti i metodi di produzione, ovvero il cosiddetto know-how dell’azienda.
Oltre al dovere appena visto, sussiste l’altrettanto importante dovere di diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa. Insomma, il dipendente deve compiere il suo lavoro con estrema attenzione e zelo, ovvero sfruttando tutte le capacità e le attitudini richieste dallo specifico ruolo in azienda. È chiaro che maggiore è la difficoltà insita nelle mansioni, più rigido sarà l’obbligo di diligenza: violarlo significherebbe rischiare un procedimento disciplinare e, nella peggiore delle ipotesi, il licenziamento.
Terzo, ma non meno importante, è il dovere di obbedienza del lavoratore rispetto agli ordini, istruzioni e direttive impartite dal capo e/o dai suoi superiori. Il dipendente, in quanto tale, è soggetto infatti alle decisioni di chi sta sopra di lui nella piramide gerarchica dell’azienda: se così non fosse non si tratterebbe di lavoro subordinato, ma di lavoro parasubordinato o autonomo.
Le regole pratiche di comportamento e cosa può far valere il lavoratore
I tre doveri appena visti sono sempre valevoli e il dipendente pertanto non può rifiutarsi di compiere quanto richiesto dal capo, anche laddove ciò vada contro i propri interessi personali. Piuttosto, laddove il comando del capo sia in qualche modo lesivo nei confronti del lavoratore, questi potrà in un secondo tempo ricorrere al giudice del lavoro per ottenere tutela dei propri diritti. Ad esempio, in tribunale potrà ottenere una sentenza che condanna il datore di lavoro ad assicurare il godimento del diritto alle ferie o che dispone la cancellazione dell’ordine con il quale il dipendente è stato improvvisamente – e senza alcuna valida ragione – trasferito altrove. Analogamente, in tribunale potrà trovare tutela del diritto ad avere un orario di lavoro conforme alla legge e del diritto di non discriminazione tra i lavoratori.
Pertanto, il dipendente – non bisogna dimenticarlo – ha un insieme di diritti da far valere in azienda e, tra essi, c’è anche il diritto di non adempiere ai comandi del capo, laddove farlo comporterebbe la violazione del principio giuridico di buona fede e correttezza, del dovere di non discriminazione dei lavoratori, della riservatezza di chi a vario titolo opera in azienda, di una norma di legge e delle regole di sicurezza nei confronti di chi lavora in azienda. Pensiamo ad esempio agli ordini (illegittimi) di compiere pratiche commerciali scorrette, a danno e con truffa del malcapitato cliente, oppure agli ordini con cui si impone agli operai di una ditta edile di lavorare senza le adeguate attrezzature e protezioni. In questi casi è possibile dire no al capo, senza rischiare conseguenze sul piano del rapporto di lavoro.
Insomma, è pur vero che legge e giurisprudenza ammettono una serie di diritti che, in qualche modo, fanno da contrappeso agli obblighi verso il capo e ai divieti da osservare in azienda. Trattandosi dell’esercizio di diritti, ogni eventuale sanzione disciplinare o addirittura la decisione di licenziamento, sarebbero illegittime e, se emesse, sarebbero efficacemente contestabili ed eliminabili con un provvedimento del giudice del lavoro.
Il lavoratore non viola le regole di buon comportamento nei confronti del capo, anche laddove eserciti con continenza e moderazione il legittimo diritto di critica che oggigiorno, come ben sappiamo, trova estesa applicazione su internet e sui social network. Si badi bene: si tratta di diritto di “critica”, non di attacco o vero e proprio insulto verbale: insomma, esprimere commenti lesivi della reputazione del capo, dei superiori o dell’azienda potrebbe esporre a conseguenze disciplinari; è quindi possibile suggerire miglioramenti o correttivi a quella che è l’organizzazione aziendale, ma non diffamare e mancare di rispetto al capo. In particolare, secondo la giurisprudenza, si ha diffamazione verso il proprio datore di lavoro, laddove nei commenti critici si oltrepassi il confine delle buone maniere, utilizzando termini specifici e disonorevoli rispetto alla reputazione altrui: il rischio, in queste circostanze, è quello del licenziamento per giusta causa.
Concludendo questo excursus delle regole di comportamento del dipendente in azienda, ricordiamo anche che sussiste il diritto del lavoratore ad effettuare registrazioni sul luogo di lavoro, laddove la finalità sia quella di tutela dei propri diritti, contro eventuali situazioni di abuso o violazione di legge. Il fine giustifica i mezzi insomma e il dipendente potrà quindi compiere liberamente riprese video o registrazioni audio (da conservare segrete e da non divulgare quindi presso terzi) per ottenere materiale probatorio da far valere innanzi al giudice del lavoro.
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