Non sempre il rapporto di lavoro tra datore e dipendente va a gonfie vele. Oltre a incomprensioni, difficoltà organizzative, problemi economici dell’azienda, possono manifestarsi attriti in relazione alla quantità di ore di lavoro effettivamente svolte dall’impiegato o operaio. Insomma, non sono rari i casi in cui il datore di lavoro decide di imporre al lavoratore subordinato un numero di ore differente e più alto di quello previsto nel contratto (ad esempio full-time invece che part-time, oppure ore di straordinario mai pagate). Ebbene, nei casi in cui il capo violi quanto pattuito in tema di orario di lavoro, per il dipendente è ben possibile citare in giudizio il proprio datore di lavoro. Per farlo efficacemente è però necessario avere delle prove: di seguito vediamo più da vicino come è preferibile comportarsi in queste circostanze.
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Orario di lavoro e onere ella prova: come dimostrare le proprie ragioni
Se un dipendente agisce contro il datore di lavoro, perché questi non ha rispettato regole e normative sull’orario di lavoro e gli straordinari, è chiaro che – per vincere la causa ed ottenere una sentenza favorevole – non basterà fare delle affermazioni. Occorrerà cioè dimostrare quanto dichiarato, con prove scritte o orali.
Nell’ambito del processo del lavoro, ciò potrebbe non essere sempre operazione agevole, laddove ad esempio un operaio non abbia mai timbrato il cartellino, causa lavoro in nero. Insomma, dimostrare la reale consistenza dell’orario di lavoro può risultare ben più complesso di quanto si creda e, infatti, in tutti i casi in cui il lavoratore subordinato intende ottenere l’accertamento in giudizio del diritto ad essere pagato per gli straordinari oltre l’orario di lavoro, oppure l’accertamento di un rapporto di lavoro in nero, è tenuto a seguire le regole dell’onere della prova.
In poche parole, il dipendente è costretto ad individuare e porre all’attenzione del giudice tutti gli elementi oggettivi che dimostrano le sue pretese in giudizio. Certamente l’assistenza di un valido avvocato, assai ferrato ed esperto in materia di diritto del lavoro, è un supporto alla citata attività di ricerca prove.
Quali prove risultano più efficaci? Il ruolo del giudice del lavoro
In sintesi, le prove in tribunale sono fondamentalmente di due tipologie: scritte e orali. Nella prima categoria, troviamo le scritture private (come gli assegni bancari), i rogiti del notaio, i contratti di lavoro (mancanti però in ipotesi di lavoro in nero), gli atti redatti dalla Pubblica Amministrazione, ma non solo. Oggigiorno, stante il contributo essenziale della giurisprudenza, talvolta anche i messaggi di posta elettronica ordinaria sono considerabili come prove. È ovvio che se il dipendente ha lavorato in nero e senza alcuna registrazione scritta degli accordi con l’azienda, anche in tema di orario di lavoro, ottenere prove scritte è ben più complesso; è però altrettanto vero che avere anche un solo documento che reca la firma del proprio datore di lavoro, può risultare elemento decisivo al fine di provare l’effettivo orario di lavoro.
Le prove orali, in tema di orario di lavoro, possono risultare più agevoli da ottenere, e talvolta più efficaci. Infatti, l’interrogatorio formale del datore di lavoro, la possibile confessione, ma anche le testimonianze di colleghi, amici e conoscenti, possono giocare un ruolo chiave al fine dell’ottenimento di una sentenza favorevole che riconosca un certo orario di lavoro e quindi il diritto al correlato trattamento economico. È chiaro però che, in caso di prova testimoniale, coloro che rendono le dichiarazioni dovranno essere puntuali, precisi e fornire e informazioni ben circostanziate; in caso contrario, il giudice del lavoro non terrà in considerazione quanto dichiarato.
Solitamente, il magistrato non ha poteri d’ufficio di accertamento tramite prove. Nel processo del lavoro funziona diversamente: infatti l’art. 421 Codice di Procedura Civile comporta la facoltà, per il giudice del lavoro, di ottenere d’ufficio il materiale probatorio utile alla decisione. Riportiamo di seguito parte di questo articolo, che con estrema chiarezza espositiva, dettaglia il ruolo del giudice in queste circostanze: il giudice “...può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti“; inoltre “...dispone, su istanza di parte, l’accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti, e dispone altresì, se ne ravvisa l’utilità, l’esame dei testimoni sul luogo stesso. Il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare...”.
Non tutte le prove hanno però lo stesso peso: ce ne sono alcune che valgono di più. Sono le cosiddette “prove legali“. Tali prove sono determinanti al fine della vittoria in giudizio, ed infatti non possono essere in alcun modo contrastate dalla controparte: si tratta in particolare degli atti pubblici del notaio, delle scritture private autenticate, del giuramento e della confessione. Una volta conseguita una di queste, al magistrato è vietato sindacare sul contenuto di quanto emerso, dovendo anzi tenerne conto in vista della sentenza. Pertanto, la confessione del datore di lavoro o un atto scritto che attesti una differenza tra orario di lavoro effettivo e orario di lavoro in contratto, saranno decisive per la vittoria in giudizio da parte del dipendente. Tutte le altre prove – non “legali” – saranno discrezionalmente considerabili dal giudice, in base alle sue competenze ed esperienza professionale: tra esse, le testimonianze di conoscenti o colleghi.
Pertanto, il dipendente farà bene a conservare potenziali prove scritte come messaggi sul cellulare o email di posta elettronica, lettere raccomandate, che fanno riferimento più o meno esplicitamente all’orario di lavoro. Anche le registrazioni audio e video sono ammesse e molto efficaci a provare un certo tipo di orario di lavoro, specialmente in caso di lavoro sommerso. Inoltre, come abbiamo già avuto modo di notare, la prova testimoniale è di grande utilizzo e potrebbe aiutare non poco ad ottenere una sentenza favorevole.
Le pause a lavoro: un obbligo per il datore
Prima di concludere ricordiamo che l’azienda è tenuta, in materia di orario di lavoro, a garantire delle frazioni di pausa durante l’orario lavorativo. Tra esse, troviamo ad esempio la pausa sigaretta, la pausa pranzo o la pausa caffè (di cui abbiamo già parlato qui). Tali soste sono di solito regolate dai CCNL di riferimento e, più nello specifico, dai regolamenti aziendali. È chiaro che, indipendentemente dal tempo minimo di pausa (almeno 10 minuti) che il datore di lavoro deve concedere al dipendente – pur sempre un diritto del lavoratore – tale intervallo concretamente è articolato in base alle esigenze aziendali, all’organizzazione dell’attività produttiva e ai picchi di lavoro.
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