[Sette prostitute e tre clienti]
Ciclo I: [Giulia] – [Jackson] – [Consuelo] – [Xeni] – [Clelia] – [Guido] – [Gaia] – [Andrea] – [Rosa] – [Elettra]
Ciclo II: [Giulia] – [Gaia] – [Consuelo] – [Guido] – [Clelia] – [Andrea] – [Jackson] – [Elettra] – [Xeni] – [Rosa pt.1]
La cena è rimasta quasi del tutto sui piatti, mentre il vino è sparito in fretta. Con le finestre chiuse l’odore di sigari e sigarette è diventato intollerabile, e chi fuma è costretto ad andare all’ultimo piano. Andrea, Guido e Jackson stanno sui divani a sinistra, le ragazze su quello a destra. Dagli sguardi languidi e le posizioni rilassate delle sere prima, ora le schiene sono più dritte. Un bicchiere appoggiato troppo in fretta fa sussultare Gaia, un colpo di tosse attira l’attenzione. Ci sono parecchi occhi rossi di pianto, tra gambe che saltellano e denti che scavano la pelle attorno alle unghie.
«Vi avevo promesso il mio primo appuntamento» fa Rosa, alzandosi in piedi.
«Ti sembra il momento?» fa Clelia.
«Hai altro da fare?» risponde il magistrato.
La ragazza abbassa gli occhi.
«Non l’ho mai raccontata a nessuno, nemmeno a mio marito. Povero tesoro mio; già mi lascia le ventenni da maltrattare, ci mancherebbe solo questa e chiederebbe il divorzio. Tu, Andrea, dici che ripensi al tuo primo appuntamento: il mio mi tormenta l’anima da un decennio, anche se è successo tanti, tanti anni prima, quand’ero all’università.
Spezzoni, immagini confuse, è come quando cerchi di afferrare una conchiglia sul fondo del mare: l’immagine dice che è lì, ma appena infili la mano non trovi niente. Ci ho messo anni a ricostruirlo e ve lo giuro sulla testa dei miei due figli, sono certa sia andata così. Ne sono sicura. Ma è impossibile. Lo era, almeno, finché non è successo questo.»
Dietro il bancone, Xeni sorride e scuote la testa senza che la veda nessuno.
«Lui era il classico ragazzo che si porta bene i difetti addosso perché sa cosa mettersi. Non vedi la pancetta, le spalle spioventi, vedi un insieme che è virile e fa sangue. Forse era l’atteggiamento a darmi fastidio, quella parlata biascicata da figlio di papà che sta passando il periodo da fattone ma ancora crede sia trasgressivo dire di farsi le canne. Studiavo legge, lui fisica. Dopo mezz’ora avevo deciso che era un grande no. Mi urtava troppo.
Eravamo dietro piazza Unità, all’Urbanis – al tempo si chiamava così, almeno. Glie lo dico: senti, non va, io torno a casa. Forse non ero così sicura, volevo solo vedere la sua reazione. Lui non si scompone, offre lui lo stesso e propone di accompagnarmi in macchina. In alternativa dovrei aspettare l’autobus perché abitavo su, verso per la panoramica. Era ancora chiaro, ma quando ti ricapita? Saliamo sulla classica macchinetta da studenti e partiamo che è il tramonto.
Facciamo barcola, saliamo su fino alla panoramica.
Poche macchine per strada, e per essere sabato è strano ma può essere. È appena finito di piovere, mi ricordo l’odore di azoto, i finestrini aperti, l’autoradio che mandava una canzone anni ’80, ma non l’ho mai trovata. C’è una curva, subito dopo la grotta. Davanti a noi una station wagon, o forse un suv, non lo so. Appena arriviamo rallenta, io guardo giù dalla scogliera. Lui mette la freccia e supera, ma siamo in curva. C’è un lampo, il lampo più intenso che possiate immaginare, così forte che senti la luce attraversarti il corpo e i vestiti.
Ricordo la frenata, poi i colori che tornano. Siamo ancora sulla curva, la macchina è sbandata di traverso ma non ci siamo fatti male. La macchina è integra, vediamo una macchina passare nella direzione opposta che tira dritto. Non capiamo, forse siamo sotto shock, ma torniamo in macchina e ripartiamo.
Mi ricordo che gli grido dietro di tutto, lo insulto, lui si scusa.
Mi ricordo che stavo zitta e aspettavo di vedere la strada che porta a casa mia guardando il golfo di Trieste, ma la curva non finiva mai. Eravamo sotto shock, era possibile la percezione fosse alterata, giusto? Solo che il mio cellulare dice che sono le 21 di sera, il sole non tramonta e la curva non finisce. Anche lui si accorge che qualcosa non va; non ci sono altre macchine, né da un senso né dall’altro.
C’è solo la curva e il tramonto.
Alle 22 appare una macchina dietro di noi e ci sorpassa nonostante noi facciamo fari e suoniamo. Corre troppo, sparisce dietro la curva. Ci fermiamo lì, in mezzo alla strada. La stessa curva, lo stesso tramonto. Siamo tutti e due terrorizzati. Ci gridiamo dietro di tutto, io lo accuso di avermi drogata, lui che sono un’isterica e che non mi toccherebbe nemmeno con un dito. I cellulari non hanno ricezione.
Riproviamo a guidare, questa volta in verso opposto, e la strada è uguale. In alto c’è roccia frastagliata, in basso il precipizio sul mare. Mi ricordo che ho provato a salire la roccia, a un certo punto. Mi ricordo che mi sono trovata sulla stessa strada da cui ero salita. Non avevamo provato a scendere in mare, tanto valeva ammazzarsi. È un volo di quasi trecento metri.
Poi è arrivata la terza macchina.
Solo allora abbiamo capito che era la nostra. Non era uguale, era la nostra. A bordo c’eravamo noi. Era passata in fretta, ma eravamo noi. Mi sono riconosciuta. Lì crolla tutto, o sono morta o sono impazzita, ma i morti non hanno sete o fame: noi sì. Lui aveva in macchina due bottiglie d’acqua perché suo padre era marinaio e fin da piccolo gli aveva insegnato che non si sale a bordo di un mezzo di trasporto senza riserve d’acqua. Ma non avevamo da mangiare. La notte più lunga della mia vita l’ho passata a bordo strada al tramonto, guardando quelle petroliere lontane e immobili.
Mi sono svegliata e la mia borsetta era stata svuotata sull’asfalto, e la macchina era coperta di scritte fatte con il mio rossetto. Sapete, fisici, ingegneri… stanno tranquilli quando possono fare calcoli. Lui l’avevo conosciuto perché a una festa si era presentato sapendo quante sigarette avevo fumato quella sera, per farvi capire il livello.
Aveva fatto calcoli a spanna sull’unica cosa che avevamo a disposizione di concreto: la macchina e il tempo. Il nostro clone non passava a caso. Passava a intervalli… esponenziali? Raddoppiati? Insomma, prima sei minuti, poi dodici, ventiquattro e così via. Noi avevamo visto tre macchine. Lui diceva che la nostra sola possibilità era fermarla. Allora prendiamo rocce e bastoni e le mettiamo in mezzo, aspettando che arrivi. La sentiamo arrivare allo scoccare dell’ora prevista, ma nemmeno vede gli ostacoli. Ci passa sopra.
Non ci restano tante macchine. Ne abbiamo una, forse due a disposizione, poi moriremo. La benzina è quasi finita e stiamo morendo di fame. Sei lì che stai per morire con uno a cui neanche volevi darla, e allora… allora che t’importa? Gli racconto chi sono, da dove vengo, le cose che ho passato. Lui mi racconta le sue paure, i suoi errori, i suoi punti deboli, quello che avrebbe voluto. C’innamoriamo di quell’amore disperato e infantile che hanno provato solo due persone che si conoscono in mezzo a un trauma.
Lo amo come non ho mai amato nessuno, nemmeno mio marito; lo amo perché è l’unica cosa che mi lega alla vita, ed è la mia unica speranza di salvezza. Quella testa bacata che tra le lacrime ha un Dio a cui aggrapparsi: la matematica. Alla fine ricordo che gli stringevo la mano, seduti in quell’auto ridotta a catorcio, e gli dicevo di amarlo. Poi c’è stato l’altro lampo.»
«E poi?» fa Clelia.
«E poi niente. Di quell’appuntamento ricordo solo che ha fatto la curva, m’ha lasciato sul vialetto di casa, ci siamo salutati e mai più visti né sentiti. Negli anni ho cambiato cento numeri, tante città, ho avuto altri e ho incontrato mio marito senza che nemmeno ricordassi questa storia. Forse avevo dei ricordi sbiaditissimi, come quelli di quando sei bambino. Foto mentali che non sai collocare. È rispuntata fuori una notte. Lo so che non è possibile sia accaduta davvero, ma come fa a ossessionarti una cosa che non è mai successa?
È un delirio, o peggio, un’allucinazione di una mente disturbata. Quindi lo metti sottochiave in qualche stanza mentale e lo vai a trovare solo quando sai di non creare problemi a te o agli altri. Questa è la prima eccezione che faccio. Questo è il mio primo appuntamento.»
«Pronti con i cocktail» fa Xeni, portando al centro del salotto dieci coppe Martini.
«Questo è uno dei miei preferiti, inventato a Cuba nel 1920 in onore di un’attrice del cinema muto, Mary Pickford. Diciamo che è la sorella minore del Planter’s punch, ma con più muscoli. Assai beverino, ideale nelle prime sere d’estate o per quelle ragazze che ancora non hanno il fegato di provare i cocktail da grandi. Sembra molto ricercato, ma ha ingredienti umili e liquori di scarso valore. Insomma, è un’illusione. Com’è il cinema, del resto.»
«Possiamo parlare di come usciamo da qui?» fa Andrea, afferrando una coppa e cercando d’incrociare uno sguardo in giro per il salotto. Trova solo quello di Guido, ma quello che ci trova non gli piace affatto.