[Sette prostitute e tre clienti]
Ciclo I: [Giulia] – [Jackson] – [Consuelo] – [Xeni] – [Clelia] – [Guido] – [Gaia] – [Andrea] – [Rosa] – [Elettra]
Ciclo II: [Giulia] – [Gaia] – [Consuelo] – [Guido] – [Clelia] – [Andrea] – [Jackson] – [Elettra] – [Xeni] – [Rosa pt.1] – [Rosa pt.2]
Ciclo III: [Xeni]
«Dobbiamo veramente ascoltare i propositi dell’anno nuovo di questa perla di generazione?» fa Guido «Cosa prometteranno, di fare meno marchette? Di usare meno il telefonino, di smettere di collezionare cuoricini e pollicini? Te lo dico io cosa succederà se usciranno vivi da questa storia: in una settimana torneranno a essere le mediocri che sono.
Quella che fa la vedova affranta, l’altra che non c’ha manco il coraggio di trovarsi un lavoro, quella che c’ha i complessi perché si sgrilletta, l’altra che si mette con lo Scarface slavo… Come credi che ‘ste marchettare siano finite qui?»
«Non lo so, tu sì?» fa Rosa.
«A furia di festine di capodanno col gin lemon della Lidl e grandi epici propositi “mi laureo”, “faccio un viaggio”, “faccio un figlio”, “scrivo un libro”, i corsi di teatro, di yoga… l’unico vero proposito non lo dicevano: girarsi i pollici e aspettare arrivi qualcuno col conto corrente. Che poi è quello che fanno, no? Ho mangiato in ristoranti dove le aragoste nell’acquario meritavano di vivere più di loro.»
«Raccontami perché meriti di vivere tu, Guido» sorride Rosa.
«Chi era… forse era in una tragedia di Eschilo? Il coro a un certo punto dice che la paura di qualcosa è sempre più grande della cosa stessa. Ed è vero, ma la teoria non serve a niente. Serve la pratica. Quand’ero piccolo, a scuola, avevo il terrore mi picchiassero. Mio padre un giorno mi domanda se secondo me lui è più forte dei miei compagni di scuola. Gli dico di sì, e allora lui mi tira una sberla che mi solleva da terra. Poi mi tira su e mi dice di ascoltare bene quello che sento.
Il fischio nell’orecchio, la faccia che pulsa, io che piango più per la paura che per la botta, anche se era notevole. Mi dice che quello che possono farmi i miei compagni di scuola non sarà mai peggio. È come se mi si fosse sbloccato qualcosa dentro. Non solo non avevo paura dei miei compagni, ma nemmeno del resto. Niente poteva essere peggio di quella sberla. La mia vita si è sviluppata così, perché quando sentivo che qualcosa o qualcuno aveva paura, io mi ci tuffavo.
Volevo trovare qualcosa che mi desse una sberla peggiore.
Ma ero troppo veloce, troppo aggressivo e troppo bravo. Forse era l’aria che c’era in Italia, forse agli altri non avevano dato quella sberla. Alla fine mi sono ingozzato di vita come un tacchino e non ho mai, mai trovato quella sberla. Ero convinto di dover solo aspettare di morire, come un campione imbattuto che si ritira all’apice. Avevo vinto, finché non è squillato il telefono con una voce che veniva da tre vite fa.
Ciao, ti ricordi di me? Hai una figlia che fa marchette in Svizzera, mio marito non può farci niente, tu eri un leone col cuore nero, se puoi, salvala. Io ho fallito. Ma perché dovrei salvarla? Fa quello che avrei fatto io se fossi nato con un buco lì sotto. Ma voglio vederla. Voglio guardare come sono fatti i geni di me a vent’anni mescolati a quelli dell’unica donna che volevo. Voglio vedere se mandano i lampi nucleari che mandavano i miei alla sua età.
Invece no. È spenta, vuota e inutile come una cornice senza quadro.
No, non è mia figlia. È il disperato tentativo di una madre che in tutti questi anni s’è tenuta il mio numero di telefono come fosse quello di un supereroe, da chiamare in caso di emergenza. Adesso so perché quella volta mi ha lasciato: perché ero la sua sberla. Non era una principessa, era una codarda che invece di evolvere è scappata a fare la guercia tra i ciechi, piuttosto di fare la ninfa tra gli dei.
Così ha cresciuto sua figlia, che naturalmente è diventata peggio di lei. E all’improvviso il grande amore della mia vita chiama il suo Dio dimenticato e lo supplica di salvarla, mentendo. Perché è questo che fanno oggi, no? Inventano sofferenze che non hanno attraversato per ottenere compassione che non hanno meritato. Niente come le lacrime altrui appanna gli specchi.»
«È vero» fa Rosa «Non mi hai detto perché meriti di vivere.»
«Perché sono l’unico che può dare la sberla che ho avuto io a quella ragazza là» dice, gettando la testa verso Consuelo.
«Te l’ho già detto, vecchio, non ne ho bisogno» fa lei, sbuffando e guardando fuori.
«Meriti di vivere per aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato, insomma» fa Rosa «Un po’ poco, avvocato. Mi aspettavo di più.»
«Ognuno gioca le carte che ha» stringe le spalle Guido.
«Oh, questo era un sacco che volevo farvelo» gongola Xeni, portando una coppa fino alle mani di Guido «Questo è un Casinò, cocktail nobile con una lunga e coraggiosa storia alle spalle. Profuma della moquette delle sale da gioco di Montecarlo, di fiches fresche e smoking impregnati di fumo; prende il suo nome dal fatto che veniva servito come benvenuto ai giocatori più aggressivi. È il drink di chi sa giocare d’azzardo» sorride Xeni, porgendolo a Guido. L’anziano, invece di prenderlo, le indica il tavolino con la testa. Xeni obbedisce.
Jackson fissa le mani dell’anziano, poi guarda altrove.