Unorthodox: perchè la serie Netflix è tra le più amate del momento
Unorthodox: perchè la serie Netflix è tra le più amate del momento. Trama, personaggi, intento documentaristico e colonna sonora.
Pubblicata il 26 Marzo 2020 su Netflix, la serie Unorthodox è tra le più amate del momento. Prodotto da Real Film Berlin e Studio Airlift, è un adattamento dell’autobiografia di Deborah Feldman (2012): racconta la storia vera di una ragazza di diciannove anni con un matrimonio disastroso alle spalle e gli occhi ricolmi di sogni irrealizzati, che decide di prendere in mano la sua vita, abbandonare la comunità ebrea chassidica Satmar di cui fa parte e fuggire a Berlino. Perché la serie piace così tanto? È la storia di una ribellione, certo, ma soprattutto del coraggio di chi sceglie di assumersi un rischio per poter trovare la propria identità. Ecco i motivi per cui vederlo.
I protagonisti, la trama, la sceneggiatura
Esty (interpretata dalla delicatissima e commovente Shira Haas) vive per di più con la nonna per cui prova un amore puro, denso di ricordi dolorosi e condivisi della Shoah, nel quartiere Williamsburg di New York. Ama la musica e infatti prende lezioni di pianoforte, cui rinuncia per il matrimonio combinato con Yanki Shapiro (Amit Rahav) un ragazzo della sua stessa comunità.
La linea narrativa si snoda tra presente e passato: da una parte seguiamo con il fiato sospeso la fuga della ragazza a Berlino, che presto si trasformerà in un inseguimento sempre più angoscioso da parte del marito (Amit Rahav) e di suo cugino Moishe (Jeff Wilbusch) ; dall’altro scendiamo a fondo nel passato della ragazza, che porta sempre di più lo spettatore a comprendere le ragioni del suo rifiuto, non della mentalità tipica dei gruppi elitari, ma anche di quelle regole così costrittive da negare ogni minima espressione del sè, da quella sessuale a quella artistica.
L’interpretazione dei protagonisti è molto realistica, estremamente a contatto con l’elemento umano, esaltata ancora di più dalle numerose inquadrature dall’impatto immediato e che, in alcuni frangenti, sfiorano la poesia: dal primo momento della libertà in cui Esty si abbandona nelle acqua del lago togliendosi la parrucca, alle lacrime sporcate da un sorriso infelice, quando prima del matrimonio i suoi bellissimi capelli vengono rasati a zero. Il volto della protagonista è camaleontico, gli occhi immensi sanno mascherarsi della più cieca remissione di una bambina fino alla più ostinata risolutezza di una donna libera.
Sono anche la sceneggiatura e il montaggio ad assumere il ruolo di colonne portanti nel mantenere alto il ritmo delle quattro puntate: gli elementi drammatici non risultano mai appesantiti, dal momento che introspezione e azione vengono bilanciati in un equilibrio perfetto. Il fiato resterà sospeso finché non sapremo l’esito della lotta per la sopravvivenza di questa giovane ragazza: se riuscirà a farsi degli amici nella nuova città, se riuscirà a sentirsi finalmente accolta, se incontrerà sua madre.
Unorthodox: chassidismo tra intento documentaristico e finzione
La regia di Maria Schrader, la fotografia (Wolfgang Thaler), le musiche di Antonio Gambale: tutto è rivolto all’attenzione del particolare. Per questo la serie Unorthodox risulta un lavoro raffinatissimo, che tende elegantemente a un tipo di intento documentaristico. Le ambientazioni portano a delle ricostruzioni elaboratissime: non s’incontrano morbidezze esemplificative per lusingare più di tanto il grande pubblico; emerge invece una ricerca di fedeltà al reale per veicolare il più accuratamente possibile la cultura, le regole sociali e le usanze di un gruppo religioso.
Viene da chiedersi automaticamente: il chassidismo è davvero così? Quali sono le reali caratteristiche di questo gruppo di ebrei ortodossi? Viene innanzitutto rispettata la figura centrale di “Zaddiq”, ovvero del “Giusto”, la persona santa, eletta, incarnata nella comunità dalla figura del rabbino, (cui infatti spettano decisioni pratiche che esulano dal piano spirituale); nonché l’attenzione agli insegnamenti delle Sacre Scritture, di cui si possono avere dei brevi scorci interpretativi in alcune scene di preghiera comune.
Quando abbiamo provato a vestire come loro e a parlare la loro lingua, Dio ci ha puniti. Quando ci dimentichiamo chi siamo, attiriamo le ire del Signore.
A onor del vero, la serie è pensata in modo tale da creare non solo un divario temporale tra le due linee narrative, ma addirittura uno scollamento molto forte di due periodi storici, percepito e non effettivo. La comunità rappresentata dalla serie, infatti, non utilizza internet e tollera pochi dispositivi elettronici, tra cui telefonini non smartphone, affermando così rigidamente le tradizioni conservatrici difendendole dagli attacchi del mondo esterno.
La scelta eccezionale dei costumi, è essenziale per i rimandi di significato: quando la protagonista lascia il suo piccolo mondo per recarsi a Berlino, sembra lasciare alle spalle anche un’intera epoca storica, coscientemente ferma al crimine storico della Shoah: anche gli indumenti che sceglierà per se stessa cambieranno gradualmente, e così anche le figure maschili, che sostituiranno con berretti da baseball i pesantissimi copricapo in visone. In effetti, Esty comprenderà sempre di più di aver abbandonato un sistema dove l’apertura ai contenuti e le libertà post-moderne non erano concesse.
Per certi aspetti, la storia di Esty ci ricorda un libro dal successo intramontabile: “Infedele”, di Ayaan Hirsi Ali. Per chi lo avrà letto, sarà stato difficile dimenticare: anche in esso viene racchiuso il racconto, dai tratti insopportabilmente crudi, di una fuga di sopravvivenza, in questo caso dall’estremismo islamico. Anche se lo stile impiegato e le realtà descritti sono estremamente più duri del racconto di Deborah Fedman, i processi psicologici sottostanti al rifiuto di gruppi estremisti e sette risultano essere i medesimi in entrambe le storie.
La lingua scelta è interamente lo Yiddish, dialetto parlato dalla maggioranza degli Ebrei stanziati nell’Europa centrale e orientale e di quelli emigrati negli Stati Uniti, che fonde in sè il tedesco ed elementi lessicali ebraici, slavi e neolatini. Il realismo della serie, delle usanze rappresentate, del matrimonio, della quotidianità familiare della comunità chassidica è esaltato ulteriormente dall’utilizzo dello yiddish e del tedesco.
La colonna sonora
Ancora una volta, l’arte (in particolare la musica), viene scelta come metafora maestra per il ritrovamento di se stessi. La protagonista ha infatti interrotto lo studio del pianoforte per sposarsi: ora però, vuole assolutamente ottenere una borsa di studio per il conservatorio.
Un’ulteriore nota positiva, dunque, va alla colonna sonora di Unorthodox, firmata da Antonio Gambale e alla scelta strategica di alcuni brani, soprattutto in occasione dell’audizione finale di Esty. Il fiato dello spettatore è sospeso perché nella realtà dei fatti, anche se sarebbe più funzionale alla favola poterlo pensare, la ragazza non possiede le capacità tecniche per competere per il conservatorio: sostituisce così al suono del pianoforte due canti strettamente connessi alla propria cultura.
La prima An die Musik, amata dalla nonna: un inno all’amore per la musica, che le ha ridato quella spinta vitale per liberarsi dalle catene. La seconda, è una canzone tradizionale Satmar, Mi bon siach, la stessa delle sue nozze con Yanki. Il momento è sublime, toccante, dal momento che i contenuti di una canzone tradizionale, che inneggiano alla fedeltà verso il marito e che dovrebbero esaltare la dedizione al matrimonio, risuonano qui nell’intento opposto, in un’eco viscerale di ribellione.
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