Nell’agosto del 1997 in falegnameria erano parecchio agitati e non capivo perché. Gli occhi andavano di continuo al portone a scorrimento del capannone, che faceva girare l’aria e mostrava i campi di Gaggio di Marcon. Avevo diciassette anni e il mio lavoro, lì dentro, consisteva nell’aiutare a scaricare i furgoni, spazzare per terra e ogni tanto – dietro supervisione – fare i primi tagli alla circolare.
Lo scrocchiare della ghiaia sotto le ruote significava l’arrivo di un camion, ce n’erano almeno un paio al giorno ed era normale. Invece quel pomeriggio tutti corsero fuori ad accogliere un Ducato targato Roma seguito da una Mercedes. Persino Silvano, il padrone, era sceso di corsa dall’ufficio e mancava poco si mettesse sull’attenti.
Dal Ducato erano scesi l’autista e il facchino, magliette della salute sporche e jeans macchiati, spalle larghe e curve. Dalla Mercedes invece erano usciti un trentenne in maniche di camicia coi baffetti e un altro col fisico da buttafuori e il sorriso di uno al primo giorno di ferie. Strette di mano, frasi di cortesia con accento romano, maniche di camicia si era presentato come avvocato. Terminati i convenevoli avevano aperto il portellone. Dentro c’era un solo imballo che occupava quasi tutto il vano carico. Mi ero avvicinato per aiutare, ma ci avevano pensato il facchino e Silvano in persona. L’avevano portato dentro e avevano impiegato cinque minuti buoni a togliere polistirolo, patatine, carta a bolle.
Ne era emerso un comò malmesso del 1700, con intarsi di argento e avorio. All’epoca doveva essere costato una fortuna, ma nel 1997 i rigattieri ne erano pieni. Dal gruppo s’era fatto largo Giovanni, unico artigiano che avevamo a bordo con una vita da avventuriero: partito giovanissimo come scassinatore di casseforti, durante la guerra era finito in una scalcagnata brigata bombarola e con la liberazione si era reinventato restauratore.
Era diventato un mostro di bravura, ma con la crisi dell’85 – complice la sua smodata passione per il cabernet – il suo laboratorio era fallito. Silvano l’aveva preso a bordo come valore aggiunto della falegnameria, anche se i suoi servigi erano rari; di norma passava le giornate a bestemmiare, bere vino, fumare MS senza filtro, insultarci e rifinire alcuni mobili che ci commissionavamo. Quella volta no.
«È questa» aveva detto l’avvocato, indicando un punto sulla superficie del comò.
Giovanni non aveva toccato il mobile come faceva di solito. Aveva messo le mani dietro la schiena e sporto la testa. C’era una macchia marrone scuro lunga una decina di centimetri che andava in diagonale dal centro verso i cassetti, dove s’allargava prima di sparire. Il mobile aveva ben altri problemi, tarli in primis; per quella macchia bastava una pezza umida.
«Io e lui restiamo per tutta la durata del lavoro» aveva detto l’avvocato, indicando il gigante allegro «Abbiamo i sacchi a pelo.»
Silvano aveva cercato una conferma negli occhi di Giovanni, il vecchio era rimasto zitto un paio di minuti, poi aveva stretto le spalle e annuito. Silvano e l’avvocato erano andati in ufficio a firmare documenti, il gigante era rimasto a un metro dal mobile e Giovanni mi aveva fatto cenno di avvicinarmi.
«Nico» mi aveva detto, mettendomi una mano attorno alle spalle «Lo vedi quel mobile? Se ci vai più vicino di due metri ti passo la sparachiodi sui coglioni.»
La storia l’avevo scoperta pian piano. Il proprietario del mobile aveva interrogato i migliori restauratori d’Italia; tutti gli avevano detto di no. Poi era venuto a sapere che Giovanni aveva restaurato gli stucchi di palazzo Ducale nel ’70, aveva scoperto che la sua azienda aveva chiuso, così aveva fatto rintracciare Giovanni in persona. Tutto questo prima che esistessero Google o Internet.
A quel punto aveva contattato Silvano e gli aveva esposto il problema: restaurare un comò per una somma smodata che penso si aggirasse sui 100,000 euro di oggi. Per un ricco era una somma impegnativa, per un falegname di provincia potete immaginarlo. C’era un però: il restauro doveva lasciare intatta quella macchia. Se veniva rovinata o scalfita, il restauratore si impegnava a pagare una penale dello stesso prezzo. Ecco perché gli altri restauratori avevano detto picche. La storia puzzava di truffa, ma Silvano s’era tutelato in maniera intelligente: aveva messo il mobile giusto davanti alla telecamera di sorveglianza, fatto venire un suo avvocato e altro che non ricordo.
Il motivo di quella macchia parte da molto lontano.
È la storia di una delle più vecchie famiglie della nobiltà romana. Il comò era stato in una delle case del Re d’Italia, poi era stato ceduto o regalato alla famiglia in questione. A Roma, durante la seconda guerra mondiale, elite italiane e ufficiali tedeschi si erano conosciuti e alcuni avevano fraternizzato. Tra loro c’era un capitano delle SS, ospite abituale a casa della famiglia dove s’intratteneva a giocare a carte. S’era innamorato del mobile e aveva più volte chiesto di scommetterlo sul tavolo verde, ma non c’era mai riuscito.
Quando arrivò l’occupazione i nazisti decisero di vendicarsi in ogni modo possibile sul vecchio alleato, e il capitano non fu da meno. Una notte entrò nella villa assieme ad altri nazisti, uccisero il padrone di casa e fecero per portarsi via il mobile senza tenere conto dei due figli: una femmina tenuta nascosta – non si sa mai – e un maschio tornato dal fronte. I due fratelli in pochi minuti escogitarono un piano: lei era uscita in camicia da notte con le mani in alto dicendo kameraden, kameraden, loro si erano voltati, lui li aveva impiombati dalle scale come birilli.
E aveva funzionato.
Ora però avevano tre ufficiali nazisti morti in casa e un sacco di sangue in salotto. Cosa fai? Lo Stato non c’è più o quasi e se arrivano altri nazisti non puoi sperare di appellarti alla legittima difesa, vi fucilano tutti. Quindi decisero di seppellire i corpi in giardino, far sparire la berlina con cui erano arrivati nella boscaglia e passare la notte a pulire. Quando al mattino dopo si erano presentati altri nazisti chiedendo spiegazioni, la sorella aveva nascosto il fratello e fatto la disperata: sono arrivati, hanno ucciso nostro padre, preso il mobile e se ne sono andati.
Non le avevano creduto.
Avevano rivoltato la casa da cima a fondo senza trovare niente e l’avevano portata in galera per interrogarla. Lei aveva resistito per venti giorni, poi c’era stata la Liberazione ed era tornata a casa. Erano passati gli anni e il mobile era rimasto nascosto in cantina, perché la gente aveva altre cose a cui pensare. I fratelli erano diventati genitori, avevano venduto la vecchia casa e mentre la svuotavano era saltato fuori il comò, su cui c’era ancora l’impronta di sangue del capitano delle SS ucciso mentre spostava il mobile.
Una macchia di sangue vecchia di 52 anni.
Avevano raccontato la storia e il macabro ritrovamento ai figli. Uno era inorridito e aveva consigliato di disfarsene, ma l’altro s’era sposato con un’ebrea benestante con agganci belli in alto. Lei s’era interessata alla storia, aveva verificato le sue fonti e trovato il nome di quel capitano delle SS, dato per disperso a Roma. Era lo stesso che aveva fatto deportare qualcuno della sua famiglia. A quel punto aveva comprato il mobile e lei non solo lo voleva in bella vista a casa, non solo lo voleva restaurato e riportato al suo antico splendore: voleva la macchia di sangue rimanesse.
Giovanni si era ingegnato: aveva fatto una foto alla macchia a grandezza naturale, poi dalla foto aveva ottenuto un calco e aveva mandato l’ordine a un’azienda di Padova, che in una giornata aveva fornito la ricostruzione in plexiglass, cava, alta un paio di centimetri e coi bordi gommati. L’aveva applicata sopra e incaricato un altro di tenerla fissata sopra e ben salda, poi s’era messo a restaurarlo sotto lo sguardo di tre persone e una telecamera mentre noi continuavamo il nostro solito spazza, taglia e inchioda.
Una mattina il comò, l’avvocato e il gigante non c’erano più. Avevano pagato, salutato Silvano e se n’erano tornati nella loro grande città lontana.
Sono passati più di vent’anni, Giovanni è mancato, la falegnameria ha chiuso e, contro ogni previsione, la vita m’ha portato a Roma. È buffo pensare che proprio qui, in chissà che palazzo, c’è ancora quel comò col sangue nazista restaurato da Giovanni a Gaggio di Marcon nell’estate del 1997.