Perché Di Pietro e l’IDV rischiano di restare schiacciati
La nuova sinistra di Vendola, l’antipolitica civica di Grillo, la destra liberale di Fini. Da chi deve guardarsi il partito che negli ultimi anni è più cresciuto, insieme alla Lega?
Alla “vocazione maggioritaria” del partito-coalizione che è alla fine diventata una vocazione maggioritaria a metà. Non più partito-coalizione, ma coalizione tra due partiti. Tra i tanti partner possibili (il Psi, l’allora Sinistra Democratica che confluì poi nella Sinistra Arcobaleno, i movimenti ecologisti), Veltroni scelse Di Pietro, che passò così dal 2,3% del 2006 al 4,4% del 2008, all’8% del 2009. Facile immaginare che Di Pietro, se Veltroni all’epoca avesse invece scelto un altro partner, avrebbe faticato ad arrivare in Parlamento. O sarebbe stato costretto, a causa di questa legge elettorale, ad entrare nel Pd. Magari fondando una sua corrente, giustizialista e antiberlusconiana.
Ora però si è aperto uno scenario nuovo. La Destra (quella nostalgica, con la D maiuscola, quella postmissina che non ama i partiti-azienda e gli imprenditori-politici, quella antiberlusconiana che in parte ha votato Di Pietro) ha ritrovato un leader. Cioè colui che qualche anno fa aveva deciso, anche perché costretto, di seguire il “Partito del Predellino”. Gianfranco Fini. Uomo di destra, ultimamente un po’ troppo liberale per alcuni, ma che, col discorso di Mirabello, le citazioni di Ezra Pound e gli omaggi a Tremaglia, ha deciso di tornare alle origini. Fini e il suo partito-non-ancora-partito, Fli, hanno sorpreso negli ultimi sondaggi. Accreditati oltre il 6% da DemosΠ su “La Repubblica” e da Ispo su “Il Corriere della Sera”, quasi al 7% da Luigi Crespi.