Vuoi salire su a vedere il mio plexiglass?
“Scusa se ti chiamo Covid19”
Con il morbo che impazza per le strade e le centinaia di morti al giorno ormai diventate un numeretto da scorrere, si discute di come sarà tornare alla vita normale. Albergatori e ristoratori sono preoccupati di riaprire quanto prima, e gli architetti hanno risposto con il materiale che piace solo a loro: il plexiglass.
Plexiglass tra gli ombrelloni, tra i camerieri, tra i tavoli dei ristoranti che dovranno dotarsi di gabbie trasparenti. Cracco dice che piuttosto di usarli chiude, e del resto a cena fuori ci sono solo due scenari: amici o donna. Nel primo caso non serve specificare cosa succede quando mescoli ubriachi e plexiglass. Nel secondo caso mi domando chi sarebbe disposto a pagare per mangiare in una ricostruzione dell’orario visite a Santa Maria maggiore.
Micro goccioline di sugo degli spaghetti allo scoglio che si spalmano davanti ai nostri occhi, calice di lui che batte in concomitanza al calice di lei sul plexiglass.
«Alla salute, tesoro.»
«Speriamo.»
Centottanta euro di cena.
Soprattutto non è chiaro a cosa servirebbero ‘ste barriere, dato che una cena fuori spesso è preludio di un accoppiamento? Se eseguito con gli stessi criteri di prevenzione sarà spassoso: niente baci, niente saliva, niente vicinanza al respiro del partner. L’unico contatto orogenitale avverrebbe col preservativo, perché non ho mai conosciuto una donna capace di mantenere la libido con il dental dam.
La penetrazione potrà avvenire solo in due posizioni: pecorina e amazzone invertita. Il mondo del nuovo sesso protetto è tornato al puritanesimo anglicano di fine 1600, in cui il massimo del romanticismo sarà guardarsi finché lei si alza, si china e alza la sottana: «Mi prenda, signor mezzadro.»
L’alternativa è il mondo fetish, tute in lattice ultra aderenti con maschera antigas dal vago sapore cortina di ferro. Peccato che per entrarci servono 40 minuti, tre persone che t’aiutano e un flacone di borotalco, ci si può restare al massimo dieci minuti prima di svenire, se ne esce marinati di sudore che manco un branzino e stanno male a chiunque abbia una BF sopra il 3%. Ma almeno così ci si può guardare negli occhi in un roleplay postapocalittico: «Fammi tua, Pietr Antoninovich» e in sottofondo il crepitare dei contatori geyger.
Immagino questo delirio finirà con il vaccino o con la convivenza. Ma avendo lavorato nella ristorazione credo la “normalità” che tanto aneliamo non tornerà più. Non del tutto, almeno. Credo il plexiglass sia una sorta di coperta di Linus a cui aggrapparsi per non pensare a problemi ben più gravi. L’acqua dei cubetti di ghiaccio, i bagigi presi con le mani, le patatine travasate, le scorze di limone riciclate, i prezzi che non solo non valgono l’esperienza, ma manco uscire di casa.
E non parlo del lusso o dei locali alti.
Parlo di quelli normali.
I clienti non sono barman né gestori, ma stavolta c’è il rischio concreto che si facciano due conti. Che si domandino se ha senso pagare 18 euro per bere da un bicchiere che è già stato in centinaia di bocche diverse, per poi smaltirlo in un bagno unisex alla turca o coi sanitari degli anni ’90 senza tavoletta. Potrebbero persino scoprire che un Negroni fatto a casa costa circa 1,50 euro.
Credo il problema sia che non sarà più possibile grassare gente in porcili con divanetti di plastica, luci fuxia e pizza surgelata. Quel tempo è finito, plexiglass o no.