Carlo Alberto di Savoia era nato a Torino nel 1798 e aveva trascorso i suoi vent’anni tra Parigi e Ginevra, combattendo per Napoleone. Era tornato a casa nel 1814 ed era stato riconosciuto dal Congresso di Vienna legittimo erede al trono di Sardegna, perché suo zio Carlo Felice non aveva eredi maschi. Incoronato nel 1831, nel 1849 aveva ascoltato i patrioti milanesi e dichiarato guerra all’Austria. Prima di entrare a Milano, però, voleva una vittoria come biglietto da visita per dimostrare ai milanesi di meritare il loro rispetto.
Pastrengo era una bella idea.
Si trattava di un paese a una ventina di chilometri da Verona, assai importante per motivi logistici e strategici, e faceva gola anche agli austriaci per poter arrivare a Verona. Radetzky ci stava arrivando con la Divisione Wocher, che aveva diviso per accerchiarla. L’Armata sarda – cioè l’esercito piemontese – era composta da tre Divisioni, ognuna con due brigate di fanteria, un reggimento di cavalleria, tre batterie d’artiglieria e una compagnia del genio guastatori. La III° era di riserva, agli ordini diretti di Carlo Alberto che era comunque Comandante in capo. Il 26 aprile 1848 le tre Divisioni varcano il Mincio e il re pianta il quartier generale a Sommacampagna.
Il pomeriggio del 28 due brigate austriache attaccano a sud di Pastrengo e vengono respinte. Il 29 combattono tutto il giorno con lo stesso risultato, e quest’accanimento dimostra il loro interesse per quel paesino. Ma secondo Carlo Alberto è un diversivo. La notte del 29 aprile, senza consultarsi con gli ufficiali, suggerisce al II° corpo d’armata di prendere Pastrengo e Bussolengo mettendo a disposizione la sua Divisione.
Il maggiore La Marmora della II° fa presente che non è una buona idea, perché così facendo si disperderebbero le forze. Serve un’intera notte per convincere il re, che si arrende solo alle 11 di mattina del 30 aprile: si incontreranno tutti a Sandrà e andranno incontro al nemico a Pastrengo.
Arrivano Vittorio Emanuele con il suo Stato maggiore, il generale De Sonnaz comandante del II° corpo d’Armata, Carlo Alberto con il suo stato maggiore, il Presidente del Consiglio Cesare Balbo, il ministro della Difesa e la sua scorta formata da tre squadroni di Carabinieri. Partono, tenendo Comandanti e ufficiali nelle retrovie. Dopo mezz’ora di marcia si rendono conto di non avere considerato la pioggia della notte prima, che ha reso il terreno una palude di fango. L’artiglieria appena ci entra rimane impantanata e rallenta, cosa che non sfugge agli occhi del nemico. Gli austriaci cominciano a sparargli addosso.
Dalle retrovie, Carlo Alberto non lo sa.
Manda ordini che si sbrighino, ma gli ordini non sortiscono effetto. Lui non è un nobile di sangue, ma di spada. S’è fatto le ossa sui campi di battaglia e decide di andare a vedere di persona cosa diavolo succede. Sprona il cavallo, immediatamente seguito da 12 Carabinieri. Quando arriva in testa alla colonna l’artiglieria si è già liberata, e dato che ormai è lì nota un’altura tra monte Le Bionde e monte Valena, da cui avrebbe una visuale perfetta del campo di battaglia.
Gli ufficiali gli sconsigliano di andare, perché non è sicuro. Lui risponde «ho meco uno squadrone di Carabinieri» e parte. Mentre la battaglia infuria, i dodici Carabinieri di scorta precedono il Re galoppando verso l’altura, dritti in bocca agli austriaci che stavano preparando un’imboscata. Li accolgono con una scarica di fucileria che fa impazzire i cavalli e cadere l’intera scorta del Re.
Richiamato dalla sparatoria precoce, il sergente austriaco Brukmquer gira il cannocchiale e quasi non ci crede: il Re è solo, esposto e a tiro di moschetto. Se uccidono il Re le conseguenze sono indescrivibili sia dal punto di vista tattico che psicologico; c’è un motivo se di norma il quadro ufficiali rimane nelle retrovie, ed è che gli uomini per combattere hanno bisogno di sapere che cuore e cervello sono protetti. Brukmquer fa immediatamente concentrare tutto il fuoco sulla collina e ordina di andare all’assalto.
200 metri indietro, al maggiore Alessandro Negri vengono i capelli bianchi.
È come vedere i tuoi peggiori incubi realizzarsi. Nel bel mezzo della battaglia, senza aspettare né chiedere ordini, dà la carica a tutti i trecento Carabinieri a cavallo presenti, che partono al galoppo con sciabole sguainate.
Una carica di cavalleria è come guardare il fondo di un burrone che ti viene incontro, ma è pieno di lame e di demoni che ti vogliono uccidere. La terra trema come se fosse un terremoto; prima una vibrazione, poi un rombo che cresce, poi cominci a sentire le urla e a vedere le lame. Non esiste film o ricostruzione storica che possa rendere un decimo di quello che prova un uomo nel vedere la morte arrivare a sessanta chilometri orari sotto forma di tonnellate di carne e acciaio.
Non puoi batterla in velocità, non puoi scansarla, non puoi distenderti né ripararti. Puoi solo sperare di spezzarla a fucilate, ma serve un’autocontrollo disumano. Vedere una carica è talmente spaventoso che anche le truppe più addestrate finiscono per rompere le righe e scappare, venendo falciate. I Carabinieri quasi ammazzano i cavalli ma arrivano sulla collina per primi, e invece di fermarsi proseguono.
Gli austriaci vedono il traguardo trasformarsi in trappola, rompono le righe e scappano.
Quella carica è rimasta nella Storia d’Italia perché mai si era vista una tale cappella da parte del Re e soprattutto una pezza tanto epica, capace non solo di salvare chi governa ma anche di concludere la battaglia solo con il coraggio suicida. C’è molto del nostro nostro popolo, in quel gesto, tanto che ogni anno viene replicato dai Carabinieri a cavallo.
Non rende bene l’idea di una carica, ma del resto non c’è film che possa farlo. Rimane uno spettacolo da vedere una volta nella vita, se amate la Storia.