The Handmaid’s Tale: la serie tv post-apocalittica: come continuerà?
The Handmaid’s Tale: la serie tv post apocalittica: come continuerà? Principali ipotesi sulla trama della quarta stagione, una riflessione sui temi
Il pubblico è fermo nell’attesa, che sembra senza termine, di anticipazioni rispetto alla quarta stagione della serie tv The Handmaid’s tale, distribuita in Italia da TimVision e programmata per l’autunno del 2020. Come anticipato dalla protagonista Elisabeth Moss su Instagram, le riprese della quarta stagione, previste per questo Marzo, sembrano essere già iniziate nonostante i rallentamenti massicci e le numerosissime posticipazioni avvenute in tutto il mondo del cinema, causati dalla pandemia coronavirus.
The Handmaid’s Tale, pubblicato da Margaret Atwood nel 1985, risuona dopo trent’anni estremamente attuale. Il fascino del distopico cos’è, dopotutto, se non quello di acquisire, dopo molto tempo, il corpo di un’inquietante previsione ? Ce lo ricordano tutti i grandi classici del genere, come Brave New World di Huxley, 1984 di Orwell, Farenheit 451, Red Bradbury, solo per citarne alcuni. E come in questi grandi classici, i perni che fondano l’annientamento della società sono la rinuncia all’identità personale, alla storia e alla cultura.
Il motivo per cui dal libro della Atwood è stata tratta una serie tv di così ampio successo, risiede soprattutto nell’universalità e verosimiglianza dei temi trattati: in un mondo dove la distruzione ambientale ha reso la natura infertile e conseguentemente anche le donne sono diventate sterili, quelle che sono state già madri vengono rapite e schiavizzate, deprivate degli affetti e di tutta la loro storia personale per diventare i nuovi uteri della classe dirigente. In un mondo dove a chi legge vengono tagliate le dita, chi usa le pillola anticoncezionale viene sbranato dai cani e viene repressa con la morte qualsiasi forma di ribellione o espressione della libertà personale, le ancelle si muovono bisbigliando sotto mantelle rosso sangue, in balia delle più brutali violenze, torture e mutilazioni, supportandosi le une con le altre in una lotta di sopravvivenza e di resistenza al regime di Gilead.
Avvincente, drammatica, sensazionale: l’elemento portante di queste tre stagioni è sicuramente l’estetica spiazzante, perfetta nelle immagini, nella fotografia, nel contrasto dei colori. Tutto esalta, deforma, drammatizza l’elemento utero, il sangue, la nascita, il gelo della solitudine, la morte, la non-scelta.
Maternità e patriarcato: concetti chiave e accenni storici
I libri di Margaret Atwood, oltre ad essere dei bestseller di fama internazionale, fanno dell’approfondimento storico il loro punto di forza. Tornata in voga anche grazie al suo altro famosissimo romanzo, “L’altra Grace“, da cui Netflix ha tratto un’altra fortunata miniserie, l’autrice non ha mai fatto segreto della necessità di attingere ad eventi storici per la creazione delle sue trame.
In effetti, la maggior parte degli eventi narrati, anche a livello puramente intuitivo e visivo, trae ispirazione dagli avvenimenti e dalle dinamiche più cruente dei totalitarismi e delle persecuzioni della storia. Dalla maternità surrogata citata nella Bibbia (su cui si fondano gli stupri sistematizzati delle ancelle) alla tortura e alla condanna a morte delle streghe, dalle sette cristiane dell’800 cui la scrittrice s’ispira, ai crimini contro l’omosessualità e le esecuzioni pubbliche, le immigrazioni in tempo di guerra: tutto richiama alle ferite collettive della Storia, con affilatissime allegorie.
Il tratto distintivo, non originale ma assolutamente ben sviluppato, è l’idea che per andare avanti nel progresso sia necessario, in qualche modo, regredire. Regredire a un mondo puro, giusto, senza tecnologia, senza sprechi, dove tutto è in ordine e la natura risorge grazie alla sospensione delle azioni dell’uomo. Diciamocelo, una perfezione in apparenza. Gli intrecci di questa storia freneticamente appassionante, nascono appunto da un’estremizzazione di questa regressione a concetti che in teoria dovrebbero potersi considerare inapplicabili nella realtà, ma che in pratica lo sono ancora oggi in diverse parti del mondo, occupando le pagine dei nostri giornali: basti pensare alla mutilazione dei genitali femminili, (diventata illegale in Sudan soltanto dallo scorso 30 Aprile) o alla condizione dei neonati di madri surrogate, bloccati in Ucraina a causa del Coronavirus. Omologare, appiattire, controllare, schiavizzare, sfruttare la debolezza altrui fin che si può e con ogni mezzo: cosa c’è di più realistico? I riferimenti del romanzo degli anni ’80, sembrano ispirarsi non solo alla storia, ma alla nostra cronaca. L’ipotesi di un mondo dove si fa ricorso a mezzi primordiali per ristabilire l’ordine, non è, in fin dei conti, così fantascientifico o distopico. Men che meno se questo avviene a discapito del genere femminile.
Questa regressione concettuale, immaginata o ispirata a eventi reali passati o attuali, in Handmaid’s Tale risulta essere un pugno nello stomaco per chiunque perchè tocca, in modo violento, il cuore dell’umanità stessa: la maternità. Lo fa andando ad approfondire bene a fondo nella psicologia individuale di ciascun personaggio senza ricorrere a semplificazioni. Se da un lato, infatti, sembra immediata la suddivisione tra buoni e cattivi, la narrazione non cede alla tentazione di sviluppare la trama in questo senso: anche gli ideatori stessi del mondo post-apocalittico di Gilead, (che vivono le conseguenze drammatiche di ciò che hanno realizzato) hanno seguito delle logiche umane e sono tormentati da conflitti interiori e rimorsi. Il personaggio di Serena Joy (Yvonne Strahovski), tratteggiato da una conflittualità odiosa e sensuale, non simboleggia altro se non una delle domande più umane che ci possiamo porre: “Quanto si è disposti ad andare oltre, per avere un figlio?” e “In che misura un figlio definisce l’identità di una persona?”
Se queste domande possono da un lato ricordare un atavico e imprescindibile bisogno biologico, psicologico ed emotivo universale, dall’altro si declinano rispetto all’immagine della donna nella società, necessaria in primo luogo per la riproduzione, necessaria per essere innanzitutto madre: questo, è forse cambiato? A fronte della Storia intera e di secoli di produzione culturale in merito, persino a fronte delle lotte per l’emancipazione, le cose non sono poi così diverse. E allora, quando si parla di maternità, qual è il confine tra scelta e costrizione più o meno sibilata, nello slalom tra l’ideale della donna contemporanea e l’archetipo della madre pura, sacralizzata?
Forse la genialità di Handmaide’s tale risiede proprio nel lasciare queste domande stracciate, calpestate, utilizzando qualsiasi mezzo per enfatizzare il nodo problematico della questione e nessuna minima soluzione per trovare una risposta comoda.
The Handmaid’s Tale: dove siamo rimasti. Ipotesi sviluppo della trama
Le abbiamo lasciate in pericolo, dopo una sparatoria, le ancelle che hanno salvato 52 bambini dal regime di Gilead, per restituirli alle famiglie di origine cui sono stati strappati via di forza. Mentre i coniugi Waterford sono stati arrestati con un inganno dal governo canadese, la protagonista June, che abbiamo seguito in tre stagioni in uno sviluppo spietato di se stessa di fronte alla sopravvivenza, è adesso gravemente ferita. Solleva gli occhi al passaggio dell’aereo che porterà i suoi bambini in Canada, finalmente in salvo. Infatti, non riuscendo a salvare sua figlia, June in qualche modo trascende il suo istinto di protezione a tutti i figli adottivi del regime, portando la sua ribellione a un punto di non ritorno.
La trama sarebbe sottoposta a una banalizzazione se le protagoniste dell’attacco non fossero torturate o uccise nel più atroce dei modi, cadendo nella favola del “giusto che sopravvive”: decisamente fuori dallo stile scelto finora. La serie, che si sviluppa ben oltre i fatti narrati nel primo libro della Atwood, forse potrebbe ispirarsi al sequel, “I testamenti”, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Ponte Alle Grazie, anche se non abbiamo ancora alcuna anticipazione.
Uno dei risvolti possibili e più amari però, sarebbe senza dubbio togliere la parola alle ancelle, angosciante monito dell’ultima stagione: se infatti pensavamo che le ragazze avessero già subito qualsiasi forma di violenza immaginabile, abbiamo cambiato idea nel vedere che ad alcune di loro, in altre zone del regime, è stata sigillata la bocca con degli anelli di ferro. Finché hanno la parola, conservano dignità, hanno una storia, hanno la possibilità di comunicare tra loro. Forse la scelta più appropriata sarebbe quelle di torturarle a vita, rendendole mute, in attesa di un colpo di scena che si avvii verso la risoluzione finale.
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