Afghanistan papers: l’orrore alla fine dell’umanità non ha effetti speciali
Prendete il sacchetto per il vomito.
26 maggio 2009
FOB Ramrod, Afghanistan
Quando nell’infermieria il soldato Justin Stoner si alza la maglietta, il medico alza un sopracciglio. È coperto di lividi giallastri che presto diventeranno viola e poi neri. È stato picchiato, ma il viso è stato lasciato immacolato. Non c’è un graffio né un occhio nero. Se non fosse perché respira a fatica e non riesce a camminare, Stoner passerebbe per un soldato qualsiasi. Quando gli domanda cosa s’è fatto, dice che è caduto dalla branda. Non è una novità tra le truppe, ma il dottore si fissa sul tatuaggio che percorre tutta la schiena del ragazzo.
Non è una frase da americano, non è una frase da soldato.
Ma soprattutto non è un buon segno.
Sei mesi prima
La visita dell’ammiraglio Mike Mullen era stata presa dalla truppa come un segno di cambiamento, ma non era mai successo. Avevano guardato in televisione le riprese della sua visita e loro essere ritratti come esempio di avanzamento del conflitto e di come stessero conquistando “la mente e il cuore della popolazione civile”.
Non era vero niente, anzi.
Nel 2009 i Talebani evitano senza fatica pattuglie e controlli, uccidono con gli IED senza nemmeno mettere fuori la testa. Alla base non si fa niente, non si sa niente, non si capisce niente. La gente gira in infradito, non si fa né ginnastica né esercitazioni. I soldati passano le giornate a fumare hashish fornito dagli interpreti, ubriacarsi, giocare a Warhammer e fantasticare in che modo uccidere la popolazione.
I superiori lo consentono perché sono nella stessa situazione.
Negli Afghanistan papers sono documentati più e più casi di ufficiali o truppa renitenti al conoscere o capire il luogo in cui si trovano. “To be honest, I couldn’t tell the difference between local nationals and combatants”, confessa un soldato ai giornalisti di Rolling Stone. A chi viene mandato a istruirli rispondono “yeah yeah just tell us where are the bad guys”.
In Afghanistan non girano tizi con l’Head up display che te li illumina con sovrascritto “HOSTILE”. Non ci sono uniformi naziste. Ci sono solo uomini, donne e bambini che non capisci e tra cui si nascondono nemici che non sai perché ti odiano o perché ti combattono.
Se la noia uccide, la mancanza di epica è peggio.
I soldati, resi euforici dalla retorica militarista e dall’unico corso di formazione consistente in film hollywoodiani, non sanno cosa raccontare a casa. Sono così frustrati che quando durante una pattuglia capitano vicino a gente uccisa da un elicottero, si fermano ad accoltellare i cadaveri. Qui uno di loro, Calvin Gibbs, viene visto gironzolare attorno ai corpi con una forbice.
«Mi chiedo se queste siano in grado di tagliare un dito» mormora.
Degli altri uomini con lui si sa poco. Si conosce bene Morlock; nato in Alaska, giocava a hockey e passava le giornate a ubriacarsi e picchiarsi con altri, guidava senza patente e faceva incidenti dileguandosi. Dopo essersi arruolato aveva dato fuoco alla moglie (che se l’era cavata) ed appena arrivato al campo aveva messo le mani su oppio, hashish, Ambien, Flexeril, Phenergan, Codeina, Trazodone e altre meraviglie a sua completa disposizione.
Quando l’ennesimo attacco IED fa perdere le gambe a un soldato, Gibbs dice ai suoi uomini che potrebbero vendicarsi su quella popolazione che sanno per certo essere simpatizzante dei Talebani. Fanno ipotesi: la prima è quella di girare con il blindato e buttare caramelle a terra, aspettare che arrivino i bambini e poi sparargli. Un altro dice che la cosa lascerebbe qualche indizio, mentre invece è molto più semplice investirli; in Afghanistan sono già successi questi incidenti e son stati chiusi senza conseguenze. Un’altra ipotesi è aspettare un attacco IED, poi uscire e uccidere chiunque sia nei paraggi.
«Di IED ce ne sono già stati tanti» dice uno degli uomini.
Il giorno dopo, durante un giro di pattuglia vedono Gul Mudin, un ragazzino di 15 anni che zappa l’orto. Lui li saluta. Loro gli dicono di fermarsi, gli tirano tra i piedi una bomba a mano senza armarla e lo uccidono. Il suono degli spari mette in allarme gli altri soldati, mentre Gibbs e i suoi uomini dicono alla radio di essere “sotto attacco”. Arrivano i rinforzi, ma non c’è nessun nemico; solo Gul Mudin morto.
Gibbs racconta di averlo ucciso proprio mentre stava per tirare la granata. Esce di casa il padre, urlando che non è vero e indicando i due soldati colpevoli. Lo portano via e se ne vanno: dell’uomo non rimane traccia se non in una riga del rapporto: “the father was very upset”.
Quando rimangono soli, gli uomini di Gibbs strappano i vestiti del ragazzino cercando tatuaggi, fanno una scansione di impronte digitali e retina, dopodiché usano il cadavere per farsi selfie.
Tirano fuori un tronchesi e gli amputano il mignolo per portarselo a casa come un trofeo, legano il cadavere al blindato a mò di trofeo e tornano alla base in cui raccontano la loro epica battaglia “anche a soldati che conoscono a malapena”. Il medico militare Alyssa Reilly, assai popolare nel campo, li vede giocarsi il mignolo a carte e lo trova “disgustoso”. Tutto qui. Non riferisce, non fa rapporto, non fa domande. Le foto ricordo vengono mandate ad amici e parenti negli USA, e tra i soldati di Gibbs c’è Adam Winfield, 21 anni.
Adam non è visto di buon occhio, è gracile e considerato debole. Viene deriso e bullizzato, così lui si sfoga con suo padre su Facebook e il 14 febbraio 2009 gli racconta la vera storia dell’omicidio. Il padre, anche lui veterano di guerra, chiama la base e denuncia la storia, ma i responsabili fanno spallucce: “Stuff like that happens”, gli dicono, e mettono giù. Adam non si stupisce.
«A nessuno del plotone frega di questa gente» dice «Succede qualcosa, ti prendi una pacca sulla spalla dal sergente. Bel lavoro, vaffanculo questa gente.»
Alla fine del mese, però, le cose per Adam cambiano. È stato accettato nel cerchio magico di Gibbs e dei suoi uomini, è considerato uno di loro ed è parecchio pentito di aver raccontato quelle cose a suo padre. Gli scrive di dimenticarsele perché se i suoi commilitoni lo scoprono ci rischia la pelle.
Gibbs ha rinominato i suoi uomini il “Kill team”
Sono diventati bravi e hanno imparato che basta lasciare armi attorno ai cadaveri e non ci sarà nessun tipo di indagine. Gibbs va dalla polizia afghana e baratta riviste porno per razzi e pistole. Poi si rivolge ad altri colleghi per avere le munizioni giuste. Raccoglie esplosivi sequestrati o IED inesplosi tra cui spicca un vecchio AK47 con due caricatori di proiettili russi. Quando un superiore lo trova e chiede a cosa serve, Gibbs dice che è il loro jolly per pararsi il culo se succede qualcosa.
Il superiore annuisce e se ne va.
27 gennaio 2010
Vedono un disabile per strada, gli urlano di fermarsi. Lui non capisce, lo crivellano con 40 colpi e Michael Wagnon tiene un pezzo di cranio per ricordo. Il tenente Roman Ligsay informa il suo superiore, capitano Matthew Quiggle, che s’incazza; è la seconda volta che ammazzano gente senza motivo, “o trovano una prova o perdete tutti il lavoro”. L’AK-47 torna utile e gli uomini di Gibbs trasformano un omicidio a sangue freddo in un’azione di difesa: “In reality he was just some old, deaf, retarded guy. We basically executed this man”.
Dopo avere ucciso vecchi, disabili e bambini, il Kill team si diverte a uccidere passanti disarmati per le strade e legarli ai cartelli stradali.
22 febbraio 2010
Operazione Kodak
Durante una missione di routine per fotograre e compilare un database dei residenti maschi in un villaggio, Kari Kheyl, Gibbs chiede al capovillaggio di uscire. Marach Agha, 65 anni, obbedisce. Gibbs tira fuori l’AK-47, spara una raffica contro il muro alle proprie spalle, poi lo getta ai piedi di Agha. Il vecchietto non capisce. Gibbs imbraccia il suo M4 e lo uccide, subito seguito da Morlock e Wagnon che usano anche l’artiglieria pesante. Recidono il dito e se ne vanno.
Quando altri militari USA arrivano a fare l’indagine, i familiari di Agha dicono che era un uomo molto religioso, pacifico, e che non sapeva nemmeno come usare un mitragliatore. Strano? No. È solo un altro caso irrisolvibile per l’esercito degli Stati Uniti e la sua eccezionale intelligence.
Il Kill team capisce di essere invincibile e toglie ogni indugio. Collezionano dita in bottiglie di plastica, sparano alla gente per strada, il 18 marzo 2010 arrivano in centro a un paese nel giorno di mercato fingendo di fare sorveglianza, aspettano la piazza sia piena di gente poi buttano una granata in mezzo. Il carrista è Darren Jones, che subito grida “RPG!” e apre il fuoco sulla gente in fuga sterminando uomini, donne, bambini in un numero indefinito, perché l’incidente non merita nemmeno un’indagine.
Il 2 maggio 2010 sono di pattuglia a Qaladay, a qualche chilometro dalla loro base.
Prendono un vecchietto, lo portano fuori, lo fanno inginocchiare e gli sparano con gli M4 e un M249, tanto da smembrarlo. Gibbs torna lì, mette una vecchia granata russa. Quando moglie e figli sono stati portati via urlanti, Gibbs torna e taglia il mignolo, poi si mette guanti chirurgici e strappa un dente, porgendolo a Winfield. Hanno ucciso il mullah Allah Dad e la voce si sparge.
Il casino arriva alle orecchie del capitano Quiggle, che deve aprire l’ennesima inchiesta. Poi trova due anziani disposti a dichiarare che il mullah era stato visto con una granata e la chiude.
Tutto torna come prima.
A mezzanotte, Stoner si presenta al sergente di guardia della base per un reclamo: è preoccupato per l’odore di marijuana che ormai impregna la sua stanza, ed è stanco gli altri soldati usino la sua stanza per farsi le canne. Il sergente lo ignora, limitandosi a togliere le batterie dai rilevatori di fumo e a riferire tutto a Gibbs. Il mattino dopo tutta la base sa che Stoner è una spia, con un problema: se ha fatto la spia su quello, potrebbe farla anche sul resto.
Lo vanno a prendere in stanza e lo massacrano di botte, avvisandolo che se fa di nuovo la spia, sarà una delle tante vittime di attacco IED. All’improvviso Stoner trova il coraggio di raccontare tutto ai superiori in cambio di protezione. Gli uomini del Kill team finiscono sotto processo e com’è tipico delle iene, si accusano a vicenda scaricando le responsabilità. Morlock prende 24 anni di carcere militare perché testimonia contro Gibbs, gli altri tornano in servizio o se la cavano con poco.
Il pubblico degli USA, naturalmente, di tutto questo scopre l’esistenza solo l’anno scorso grazie a un malinconico film, che ai botteghini non va molto bene perché non permette di disputare l’utilissimo derby Bush/Obomba/Drumpf e anzi, suggerisce che siano tutti lo stesso schifo e che li manipolino nello stesso modo. Poi ha altro di cui occuparsi; la guerra in Afghanistan è vecchia, noiosa e non interessa a nessuno, come la scarsa reazione gli Afghanistan papers dimostra.
I miei articoli sugli Afghanistan papers terminano qui.
O meglio, termina qui il mio stomaco di leggerli.