Quando Michael Jordan disse che “anche i repubblicani comprano scarpe”
Il documentario The Last Dance ha riacceso i riflettori anche su una vecchia e controversa storia che ancora oggi crea qualche problema a Michael Jordan
Tra gli amanti del basket e non solo, a dire il vero, sta riscuotendo un certo successo The Last Dance; si tratta di un documentario, targato Espn e disponibile su Netflix, in cui si raccontano le gesta epiche dei Chicago Bulls e, soprattutto, del loro eterno trascinatore Michael Jordan. La serie, però, si concentra anche su molti aspetti, non tutti (è facile notare che non si fa grande accenno al privato” – leggi “ex moglie” – di MJ), della vita del campione: in una delle puntate vengono riaccesi i riflettori anche su una vecchia e controversa storia che ancora oggi gli crea qualche problema.
Michael Jordan: la realtà bussa alla porta
A lungo Michael Jordan è stato solo “il Basket”, la quintessenza puramente atletica della pallacanestro. La sua figura si è prima ammantata dell’aurea del giovane “prescelto” e poi di quella dell’atleta “assoluto”. D’altra parte, come accade a tutti i campioni, almeno a quelli dalla lunga carriera, la realtà che sta fuori al rettangolo da gioco arriva sempre a bussare alla porta. Per esempio, MJ è stato spesso e volentieri accusato di avere un problema col gioco d’azzardo nel corso degli anni; lui si difende da sempre dicendo di essere solo molto “competitivo” (e sicuramente di non avere problemi a scommettere 10mila dollari per una buca a golf, altra sua grande passione, insieme al baseball), meno nota è invece una vicenda che ha visto la politica strattonargli la canotta.
Quest’ultima è stata riportata sotto la luce dei riflettori dal documentario in dieci puntate The Last Dance; il nome della serie è un omaggio al “vezzo” di Phil Jackson – 2 titoli NBA (anche se in un caso era infortunato) da giocatore con i Knicks di New York e, addirittura, 11 anelli da allenatore (6 con i Bulls e altri 5 con i Lakers di Los Angeles) – che dava un titolo diverso, un titolo “a tema” in un certo senso, al Playbook di ogni singola stagione. All’inizio di quella del 1998 gli era stato di fatto dato il benservito dalla società per motivazioni discutibili ma che qui è improponibile approfondire per ragioni di spazio (spoiler: la proprietà voleva “rinnovare” la squadra più forte di tutti i tempi!?). Quello che conta è che, seppur con la morte nel cuore, accettò l’incarico: dunque, il titolo del libro degli schemi da utilizzare per quell’anno fu, appunto, “L’ultimo ballo”.
Comincia così The Last Dance, con la narrazione di quel difficile anno che però si rivelò comunque vincente. Scorre in parallelo al racconto della stagione 1998 – il culmine del secondo three-peat (l’espressione del gergo sportivo americano indica una sfilza di tre titoli consecutivi) dei Bulls – quello su come Mike si era trasformato in MJ, cioè di come un giovane talentuoso ma ancora acerbo cresciuto in North Carolina fosse diventato, probabilmente, il personaggio più famoso e ammirato del mondo, anche oltre l’ambito sportivo.
“Anche i repubblicani comprano le scarpe”
Era il 1990, in North Carolina si doveva tenere una tornata elettorale con in palio un posto al Senato. A contenderselo, da una parte Harvey Gantt, candidato democratico e afroamericano (come Jordan), dall’altra, il senatore in carica Jesse Helms, repubblicano accusato dai suoi oppositori di avere posizioni favorevoli alla segregazione razziale. Un po’ tutti in quell’occasione si aspettavano l’endorsement dell’allora “stellina” del Basket per Gantt, probabilmente anche il candidato democratico stesso che sognava di diventare il primo senatore nero del suo stato, ma l’appoggio di Jordan non arrivò mai.
Non si sa quanto sarebbe stato utile, sicuramente avrebbe aiutato la campagna di Gantt (che d’altra parte risultava in testa ai sondaggi): ad ogni modo, alla fine prevalse Helms, con uno scarto di circa sei punti. I problemi nascono qualche anno dopo per il numero 23, precisamente quando il giornalista Sam Smith pubblicò un libro in cui riferiva alcune parole attribuite a Jordan; in una conversazione avuta con un amico che gli chiedeva qualche delucidazione sulla vicenda, MJ avrebbe spiegato il suo mancato sostegno con una freddura “Republicans buy shoes, too”, insomma, “anche i repubblicani comprano scarpe” (in alcune versioni viene usato il termine “sneakers”, sostanzialmente, scarpe da ginnastica). La battuta venne interpretata da subito come un segno dell’indifferenza di Jordan a ogni ideale e, ancora peggio, come una netta presa di posizione contro la propria comunità di appartenenza in nome del successo personale e di lauti guadagni (Jordan era da poco stato scelto come volto di punta dell’emergente Nike).
Per molti anni il dibattito si concentrò sulla questione: “l’ha detto davvero-non l’ha detto davvero”. Un pregiudizio più o meno generalizzato sul suo reale coinvolgimento nelle questioni legate alle discriminazioni razziali e alle tematiche sociali in senso ampio pare essere in ogni caso rimasto attaccato a Jordan, anche perché lui stesso non ha mai nascosto di voler rimanere fuori dall’agone politico. Il problema per un personaggio del suo livello di esposizione mediatica non è così banale: la sua reputazione prese a scricchiolare anche senza paragoni con titani dei diritti civili legati allo sport come Muhammad Alì, ora acclamato come miglior pugile di tutti tempi e tra gli eroi americani per eccellenza, ma con un passato di perseguitato politico per via delle sue posizioni anti-segregazioniste e del suo rifiuto di prestare servizio militare durante la guerra in Vietnam. Lo scheletro, tra l’altro, è tornato fuori dall’armadio anche in tempi recenti: il confronto stavolta è stato con LeBron James, il suo più degno erede in attività ora ai Lakers, sempre in prima fila quando i diritti degli afro-americani vengono minacciati (un po’ più tiepido quando a essere minacciati sono i diritti dei cittadini di Hong Kong, forse per timore delle ripercussioni del suo “marchio” in Cina), o con Colin Kaepernick, ex quoterback Nfl, rimasto senza squadra dopo essersi continuato a inginocchiare per protesta contro la violenza “razziale” della polizia – vera o presunta che sia, comunque tradizionalmente avvertita dalla comunità afro-americana – al momento dell’inno pre-partita.
Tuttavia, come capita molto spesso quando si parla di personaggi sfaccettati, anche in questo caso non si può liquidare Jordan come un semplice menefreghista o un capitalista senz’anima. MJ ha donato 2mila dollari per la campagna senatoriale di Gantt nel 1996 (ma pare abbia finanziato anche quella del 1990), anche in quel caso l’aspirante senatore perse, risulta anche che finanziò la campagna a senatore di Barack Obama e poi quella a presidente. Inoltre, nel 2018, si espose pubblicamente a favore degli stessi James e Kaepernick, sotto attacco in quel frangente da parte del Presidente Trump, che andava contro chi si inginocchiava durante l’inno americano. Certo, è anche vero che il suo atteggiamento prevalente è quello di rimanere neutrale quando la discussione si polarizza; insomma, è innegabile che uno dei suoi tratti distintivi sia quello di non voler mai, ma proprio mai, scontentare nessuno. In The Last Dance, racconta che quando sua madre gli caldeggiò la possibilità di sostenere Gantt lui non ebbe altro da dire che “i’m not speaking out of pocket about someone that i don’t know”: perché garantire per qualcuno che non si conosce, d’altronde? Il fatto fondamentale a questo punto è che: “I never thought myself as an activist”, Micheal Jordan non si è mai visto come nient’altro che uno sportivo. Quindi, al pubblico chiede se questo sia un comportamento egoista: probabilmente sì, l’ovvia risposta. Questo non ispira gli altri, non lo fa apprezzare? Bé, allora gli altri dovrebbero cercarsi un altro modello. Questo è l’unico e vero Micheal Jordan.
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