Inchiesta Robbed cheese: quando la commedia diventa poesia
La frase “vai a zappare” interpretata dalla polizia di Stato ha tutto un altro stile.
Siamo a Ravenna.
Caterina ha capelli a caschetto che vedono il parrucchiere quando le punte diventano triple, un armadio pieno di camicie bianche e cinquant’anni di rughe attorno agli occhi, ottenute bevendo caffè solubile e perdendo diottrie sui fascicoli del commissariato di polizia. I fogli coi disegni dei figli sono ingialliti, ma li tiene ancora appesi al muro tra il tricolore e le foto di Falcone e Borsellino.
Da anni sta seguendo un’indagine sullo spaccio di cocaina. Nel 2018 avevano fatto cinque arresti, recuperando un etto di droga; è poca roba, ma trovare i vertici è difficile. Intercettano tre albanesi e microfonano le auto, nel 2019 recuperano mezzo chilo proveniente dall’Austria. Ancora poco. Nelle indagini oltre a impegno, mezzi e intelligenza serve una cosa: un babbeo dall’altra parte.
Massimo ha baffi anni ’70, il tatuaggio Baywatch sbiadito sul bicipite, cinquanta pranzi di Natale attorno ai fianchi e una moglie a cui non importa se posta donne nude su Facebook. Tira a sera in uno di quei baretti coi bicchieri sbranati dalla lavastoviglie, dove tra una Peroni e un commento sul governo sbarca il lunario spacciando ai ragazzini cocaina da due soldi.
Gli piace, il suo lavoro; lo fa sentire VIP – negli ’80 la coca era uno status symbol – e gli permette di aumentare il numero di morti per overdose tra i ragazzini. Le giornate di Massimo sono costellate da ansie legate al decadimento fisico o paranoie riguardo alle forze dell’ordine.
Le strade di Caterina e Massimo s’incrociano una sera, quando Massimo torna a casa sbronzo e litiga con la moglie.
Terrorizzato la donna trovi la droga, Massimo decide di nascondere sette bustine di cocaina in un barattolo e seppellirle in giardino. L’abitazione è già sotto controllo da settimane: i poliziotti che tengono d’occhio il giardino vedono la scena e riferiscono, così Caterina ha un’idea. Il mattino dopo, Massimo esce di casa per andare al bar, va dove ha seppellito la droga e non la trova. Scava attorno, ma non c’è niente. Confuso, telefona ai complici: «Bè, la mattina dopo mi alzo e non c’è il barattolo. Erano sette-otto bustine, dentro. Non capisco che cazzo mi sta succedendo.»
Perdere la droga da spacciare non è solo un problema di entrate mancate, ma anche di uscite. Se il fornitore ti considera uomo di fiducia può capitare ti consegni la droga pro bono e aspetti una percentuale sulla vendita. La mancata percentuale è una violazione del codice incivile a cui segue la cosiddetta querela guatemalteca, il cui dibattimento si vede nei siti a sfondo nero con disclaimer.
Finché sono sette bustine, Massimo non ha problemi a rimetterli di tasca sua.
Il vero problema arriva quando nasconde 518 grammi di cocaina nel bosco, e i poliziotti di Caterina gli fanno lo stesso scherzo: «Se non la trovo sono ventimila euro che devo dare loro. Mi sta piangendo il cuore» dice, intercettato da una microspia. Gli va riconosciuto un notevole sangue freddo: se io avessi un debito di 20k con la mafia albanese probabilmente userei espressioni più colorite.
Così come gli scoiattoli si scordano dove hanno seppellito le ghiande, così Massimo è convinto di avere scordato l’albero giusto. Arruola tutta la famiglia per trovare la preziosa polvere e i poliziotti li lasciano fare questo giro di lavori forzati finché l’intera boscaglia è dissodata e arata come un campo di granturco. Solo allora si presentano con le manette.
Una storia che permetterebbe capolavori cinematografici, con il giusto regista.