Sono stato in un ristorante post lockdown, ed è tutto molto strano
L’unica cosa che vedi è il guanto di gomma che trema mentre ti versa il vino.
A San Giovanni il mio ristorante preferito è gestito da romani e fa cucina italiana senza pretese di stelle Michelin, ma ha un occhio di riguardo al pesce e ai vini regionali, fa prezzi onesti, il personale è cortese e dopo una giornata pesante è una benedizione. È uno di quei posticini coi menu scritti sulla lavagna, le tovagliette di carta beige, l’aria che sa di prezzemolo e uno in completo e cravatta mangia di fianco a uno in maglietta. Appena ho visto le serrande tirate su ho telefonato per prenotare.
Quando arrivo sono il solo, ma hanno altre quattro prenotazioni.
Mi accoglie il cameriere, un colosso di 120 chili con mascherina FFP2, occhiali, guanti di lattice e maglietta della salute. Credo mi sorrida, lì sotto. Vorremmo abbracciarci da tanto ci siamo mancati. Appena gli dico che tra una ventina di minuti mi raggiungerà mia moglie, con un certo imbarazzo prende un registro e mi domanda il mio nome, cognome e numero di telefono. Bisogna dichiarare se l’altra persona al tavolo è un congiunto. Se non lo è, potrebbe servire il plexiglass.
«Potrebbe?» domando.
«Non si sa. Non c’è niente di obbligatorio tranne la mascherina.»
Prima del lockdown una mia passione era stare su uno dei tre tavolini fuori appoggiati al muro. Domando se è possibile, il cameriere e la cassiera si mandano un’occhiata, poi lui annuisce. Prima che arrivi il prosecco la cassiera esce, prende un tavolino e lo mette perpendicolare al mio. Si allonntana, studia.
Dico che aspetto solo mia moglie, lei replica che non è un coperto, lo usa come barriera per impedire alla gente sul marciapiede di passarmi troppo vicino. Funziona, in effetti. Aspetto il prosecco mentre la gente di passaggio mi guarda come chi trova un gioco d’infanzia in un cassetto.
Arrivano tovaglietta di carta e bicchiere girato verso il basso. Faccio per girarlo – l’ho fatto milioni di volte – ma fermo la mano a metà, perché mi domando quanta gente abbia toccato quel bicchiere. È uscito dalla lavastoviglie e si vede. Ma io non so se l’acqua a 60° uccide il morbo. Per un istante penso di chiedere una cannuccia, poi m’immagino a bere prosecco come se fosse un Tiki e rinuncio.
Il colosso arriva con la bottiglia e mentre mi versa il primo bicchiere post lockdown gli tremano mani e voce, come chi fa qualcosa in bilico tra legale e querela. Gli chiedo come se l’è passata, risponde che per fortuna sua moglie è commercialista, perché per compilare la richiesta d’aiuti ci hanno messo un’ora, insieme, e adesso è ancora lì. Stringe le spalle e sbuffa una risata:
«Ma poi, figurate se ce daranno mai ‘na mano. Se dovemo arrangia’».
Il menu è diminuito della metà, ma i prezzi sono li stessi. Lo vedo entrare e uscire dalla cucina senza mai togliersi la mascherina o i guanti, a volte passarci il disinfettante sopra. Non si avvicinano se non il tempo necessario ad appoggiare i piatti. Sono io che cerco di metterli a loro agio, e faccio una gran fatica. Non immagino cosa sia cucinare tra fornelli e vapore con quella mascherina addosso.
Gli lascio una mancia abbondante e prometto che tornerò da loro il prima possibile, anche se non è stata un’esperienza gradevole. C’era troppa tensione, e li capisco.
Alla fine, la sensazione è che in quel “consigliabile” ci sia un mondo dove intelligenza, buonsenso e fortuna siano le solite, uniche armi che hanno gli italiani. In un mondo di cose “consigliabili ma non obbligatorie” sopravviveranno locali e ristoranti che non solo fanno la cosa giusta, ma sono e saranno frequentati da gente che se ne accorge o ci fa caso.