Il problema degli USA è nelle sue fondamenta, e non si può risolvere
Guardare gli Stati Uniti con gli occhi di un europeo non ci permette di capire appieno quanto sono sbagliati.
L’episodio di George Floyd ha tirato una scintilla in una Santa Barbara dove si trovavano l’alt-right bianca che non vedeva l’ora di mettere in pratica i propri concetti di difesa armata individuale/tribale, i prepster armafiliaci ansiosi di poter girare come fosse il set di Fuga da New York, i cittadini in povertà assoluta, i figli della middle class felici di mischiarsi per divertimento, i pazzi che tentano stragi per gioco, la totale incapacità delle FF.OO americane di gestire l’ordine pubblico (“se vi tirano bottigliette d’acqua, investiteli” è roba che manco a Baghdad) e, per finire, la voglia generale di scaricare odio razziale, brama di violenza e caricatori di giocattoli militari accumulati negli anni.
E tutto questo viene semplificato dalla parola “razzismo”.
Basta pronunciare quella parola e la folla si divide immediatamente: bianchi contro neri, neri contro bianchi, bianchi contro bianchi che sono contro i neri, neri contro i meno neri, neri contro i bianchi che sono contro i bianchi e via dicendo. È straordinario. Negli Stati Uniti su 328,2 milioni di persone ce ne sono 38 milioni in povertà di cui oltre mezzo milione senza casa, cioè circa il 12% della popolazione (con la crisi dei subprime nel 2010 era il 15%) ma finché si parla di lotta razziale non si parla di lotta sociale, e a chi comanda non servirà assassinare Martin Luther King o Kennedy.
Finché i poveri sono convinti di essere diversi non sono pericolosi.
Continueranno a scannarsi tra loro e fare a gara a chi è meno diverso, a chi è migliore dell’altro, a chi vive meglio. In questo raffinato meccanismo del dividi et impera una parte importante la fanno rivolte e saccheggi. Sono previste fin dai tempi di Martin Luther King. Cos’è che saccheggia, il popolo? Televisori, cellulari, borse, scarpe, tutta roba fatta da altrettanti poveri dall’altra parte del mondo, pagati a bastonate e miseria, e che ai proprietari costano pochi centesimi. Quanto costa produrre un paio di Nike in Vietnam, o assemblare un televisore in Cina?
A nessuno di chi sta al vertice cambia nulla, anzi.
Se saccheggiano beni di lusso e status symbol è un buon segno: da un lato mostrano di dare ancora importanza agli oggetti che li tengono in catene, dall’altro permette alla destra di puntare il dito e dire “guardate, sono banditi” e la sinistra replica “razzisti”, per quello strano meccanismo mentale per cui più dai del razzista a qualcuno e più credi di dimostrare di non esserlo tu.
Ma gli Stati Uniti sono un paese marcio sin dalla nascita.
Fondati da pochi borghesi e nobili che gestivano una grande manodopera bianca venduta in servitù a contratto, la quale era composta da carcerati e/o idioti fuggiti dal paese d’origine quasi subito affiancati (e poi sostituiti) da schiavi rapiti o comprati in Africa; tutto questo basato su un sistema protestante, quando non di derive cristiane ancora più individualiste e/o utilitariste. Il loro è un modello con zero coesione sociale, individualismo assoluto, classismo o razzismo (sai che cambia…) in cui 40 anni fa se eri nero non ti potevi sedere con i bianchi e tutt’oggi non esistono salari minimi decorosi, ferie pagate, congedi di malattia o maternità, pensioni minime e l’assistenza sanitaria è un benefit per pochi privilegiati.
Un posto dove oggi se sei povero non hai la reale possibilità di votare (i seggi stanno a chilometri di distanza, i trasporti costano e impiegano tempo), la scala sociale è azzerata e sia destra che sinistra ti dicono che il punto è il colore della pelle. Che di sicuro gioca un ruolo, ma non è il principale e nemmeno il secondario.