Prima di addentrarci nella fase finale (si spera) della riforma è bene fare un piccolo ripasso, cercando di fare chiarezza:
La riforma Gelmini è un insieme di provvedimenti scolastici voluti dall’attuale Ministro dell’Istruzione sotto forma di tre decreti-legge (tutti già tramutati in legge) e un disegno di legge, ancora in discussione. In ordine cronologico:
• decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (in seguito Legge 133/2008)
• d.l. 1º settembre 2008, n. 137 (in seguito L. 169/2008)
• d.l. 10 novembre 2008, n. 180 (in seguito L. 9/2009)
• disegno di legge S.1905 (approvato dal Senato, ma non dalla Camera)
Il primo d.l., che ha soppresso la Fondazione IRI per consentire al Ministero di avere un maggiore controllo della spesa pubblica, era rivolto essenzialmente al mondo universitario. Al contrario, i decreti legge n.137 e n.180 hanno apportato consistenti modifiche e novità alla scuola primaria e secondaria, tra cui il riordino delle scuole superiori, l’istituzione del maestro unico, il ritorno al voto in condotta, la reintroduzione dell’educazione civica e un piano di recupero delle strutture scolastiche.
Come ben ricorderete, questi passaggi legislativi non sono stati per niente indolori. Per mesi interi studenti di ogni età e docenti non solo precari hanno sfilato insieme in tutte le piazze d’Italia prevalentemente contro l’introduzione del maestro unico e contro i tagli alla scuola pubblica. In particolare gli studenti universitari sono riusciti a mettere su un movimento piuttosto compatto – l’Onda – che tuttavia ha ricevuto dalla maggioranza e dal governo parecchie accuse di essere politicamente strumentalizzato.
Per l’ultimo pezzo della riforma, il ddl S.1905, la storia non è cambiata. Sebbene in tutti i media si sia parlato dell’agitazione di ricercatori e studenti – che ancora oggi tiene in stand-by molte università del Paese – in pochi si sono presi la briga di spiegare le ragioni della protesta.
Per far ciò, si tenga presente che oggi i due organi più importanti di qualsivoglia ateneo pubblico sono il senato accademico e il consiglio di amministrazione.
Il primo – composto dal rettore, i prorettori, i vicerettori, i presidi di facoltà, i rappresentanti dei dipartimenti e degli studenti – si occupa della gestione “politica” dell’ateneo: approva il bilancio, decide della chiusura o dell’apertura dei corsi di laurea, individua i percorsi da seguire per ciò che riguarda la didattica e la ricerca;
Il secondo – composto dal rettore, i prorettori, i rappresentanti dei docenti, dei ricercatori, del personale tecnico-amministrativo, degli studenti, e degli enti pubblici (Comune, Provincia, Regione) – si occupa della gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale dell’università senza la possibilità di decidere su didattica e ricerca. Con il ddl Gelmini i ruoli di questi due organi verrebbero rivoluzionati.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
Ma vediamo punto per punto di cosa parla il ddl e a quali scenari può portare il testo approvato dal Senato il 29 luglio scorso:
[ad]Meno poteri al senato accademico. L’art.2 del ddl Gelmini toglie di fatto alcuni poteri al senato accademico, a cui viene data la possibilità di «formulare proposte e pareri». Il senato può modificare i regolamenti in materia di didattica e ricerca solo «previo parere favorevole del consiglio di amministrazione».
Più poteri e ingresso di enti privati nel Cda. Il consiglio di amministrazione può ora approvare il bilancio e decidere della chiusura o dell’apertura dei corsi di laurea. Riduzione del numero di componenti a un massimo di undici, con relativa diminuzione del numero dei rappresentanti di professori e studenti. Ingresso nel Cda di enti esterni all’università (anche privati) nominati direttamente dal rettore. Questi possono variare da un minimo di due, se il Cda ha meno di undici membri, a un massimo di tre, se il consiglio ha undici componenti.
Rettore in carica per 8 anni. Il rettore può mantenere la propria carica al massimo per otto anni (due mandati). Nel frattempo può essere sfiduciato dal senato accademico, con una maggioranza del 75%, se sono trascorsi almeno due anni dall’insediamento.
Atenei più “snelli”. Ogni università può essere costituita al massimo da dodici facoltà. Per dimezzare i costi verranno soppresse alcune facoltà e corsi di studio, e atenei vicini appartenenti alla stessa regione si potranno federare.
Fondo per il merito. È istituito un fondo per il merito destinato a «erogare premi di studio» e «fornire buoni studio che prevedano una quota, determinata in relazione ai risultati accademici conseguiti, da restituire a partire dal termine degli studi». Inoltre il fondo fornisce prestiti d’onore che dovranno essere restituiti interamente dagli studenti. Un bonus economico è previsto anche per i docenti più meritevoli. Tuttavia, non viene fissato un ammontare minimo garantito dal Ministero dell’Economia.
Abilitazione nazionale per il reclutamento docenti. Per i professori associati o ordinari viene istituita un’abilitazione annuale a livello nazionale. Il reclutamento avviene tramite concorsi locali per idonei nazionali, per procedure riservate a personale già operante nell’ateneo, o per chiamata diretta. La valutazione dei professori sarà determinante per l’attribuzione dei fondi alle università da parte del ministero
Stop ai ricercatori a vita. Oggi i ricercatori dopo i molti anni di precariato (post-doc, assegni, borse etc.) possono diventare ricercatori a tempo indeterminato. Se passasse il ddl il ricercatore vivrebbe un periodo di precariato di tre anni, rinnovabile una sola volta di altri tre, in seguito al quale o viene assunto come professore associato (tramite concorso nazionale) o chiuderà il rapporto con l’ateneo mantenendo i titoli per eventuali concorsi. Il provvedimento abbassa l’età in cui si entra di ruolo in università da 36 a 30 anni con uno stipendio che passa da 1.300 a 2.000 euro.
Quest’ultimo punto è al centro della sommossa dei ricercatori, professionisti non sempre giovanissimi che ricoprono circa il 40% delle docenze universitarie nonostante non rientri nei loro compiti. La loro astensione dagli insegnamenti negli ultimi mesi – che non è uno sciopero insensato bensì un loro diritto – ha di fatto bloccato i corsi per migliaia di studenti di tutta Italia, che ancora oggi vivono una situazione di forte disagio (non ricevono il “servizio” più importante, l’insegnamento, pur avendo pagato le tasse).
[ad]Mentre i ricercatori lamentano l’intasamento del sistema universitario, che a loro avviso non potrà sostenere in futuro l’assorbimento a tempo determinato dei ricercatori, gli studenti, seppur appoggiando la protesta dei ricercatori, si muovono prevalentemente sul fronte dei tagli. Le “sforbiciate” previste dalla legge 133/2008 e mitigate in seguito dalla Gelmini, diverranno particolarmente gravose nel 2011, ammontando a circa 198 milioni di euro. Se a questa cifra si aggiungono i 550 milioni di euro stanziati dal Governo Prodi per il biennio 2008-2010 e i 400 milioni stanziati dal Governo Berlusconi nel 2010 (soldi derivanti dallo scudo fiscale) per l’Università, la quota a disposizione della Gelmini per il prossimo anno diminuisce di oltre un miliardo rispetto al 2010.
In conclusione, la situazione odierna è la seguente: Tremonti, per far ripartire il disegno di legge in Parlamento, ha promesso alla Gelmini di «mettere più soldi possibili» per la riforma dell’Università specificando che ciò avverrà solo «a fine anno», in seguito all’approvazione del decreto Milleproroghe. Il ministro dell’Istruzione, dal canto suo, spera che da via XX settembre arrivino almeno 800 milioni di euro, ovvero i fondi necessari a finanziare il piano di concorsi per l’assunzione di 9mila ricercatori precari. Tutto questo, non prima di un mese, forse due.
Giuseppe Ceglia