Quando un siciliano e un piemontese salvarono l’Italia
Oggi la Marina militare festeggia un anniversario importante: l’impresa di Premuda.
Antefatto
La notte del 24 ottobre 1917 l’artiglieria austro-germanica attacca a sorpresa la conca di Plezzo e la testa di ponte di Tolmino, 25 chilometri più a valle. Noi siamo ancora nelle trincee quando i nemici, complice la nebbia, penetrano nelle nostre linee come locuste, arrivando fino all’Isonzo. In poche ore interi corpi d’armata vengono affiancati o accerchiati, tra cui la 2da armata di Capello. Persi i collegamenti e decapitata la catena di comando, molte divisioni vengono sterminate.
È il panico.
Il 27 ottobre il Comando supremo scappa da Udine e si ritira a Treviso, mentre interi reparti tedeschi entrano a Cividale. Il generale Giovanni Villani si spara dopo aver telegrafato “i comandanti e le truppe hanno fatto fino all’ultimo il loro dovere”. Il generale Gustavo Rubin de Cervin fa lo stesso. Le strade sono intasate di civili che scappano dalle proprie case in fiamme, con gente esausta che non dorme da 72 ore e dorme sul ciglio della strada a gruppi, come cadaveri.
Il 30 ottobre, in un disperato tentativo di rallentare l’avanzata, vengono fatti esplodere dei ponti sul Tagliamento abbandonando interi reparti con prigionieri, feriti, donne e bambini al massacro. In pochi giorni Pordenone, Sacile, Conegliano vengono invase e i soldati austro-germanici trovano 900,000 persone di cui la maggioranza è composta da donne, bambini e anziani. Vengono sistematicamente torturati, stuprati e assassinati, spesso nella propria casa davanti ai genitori e ai figli, senza che nessuno le difenda o faccia giustizia.
A Cordignano venivano trattati barbaramente. […]Gli legavano i piedi e le mani a un palo e li sospendevano lasciando solo le punte dei piedi toccassero terra per due ore, finché non diventavano paonazzi o non andavano in svenimento.
(Camera dei deputati, Comitati segreti sulla condotta della guerra, Roma, Archivio storico, 1967)
Le notizie e i racconti si spargono in fretta, facendo sprofondare un paese già provato nella disperazione. Il 2 novembre 1917, Bissolati in parlamento dichiara:
«È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò ora dobbiamo pagare e scomparire.»
Preso il nord Italia, resta il mare.
La Kriegsmarine programma una trappola in grande stile, che impiega buona parte della flotta. Sette incrociatori e quattro torpedinieri saranno il gruppo d’attacco che attirerà fuori i nostri incrociatori Valona e Brindisi. Una volta usciti, il gruppo di sostegno composto da sette corazzate scortate da 35 siluranti – e da svariati aerei e sommergibili – le circonderà e affonderà. L’8 giugno 1917 salpano da Pola, e per l’occasione vengono imbarcati cronisti e giornalisti che possano documentare al mondo il trionfo della Kriegsmarine.
Purtroppo da quelle parti transitano un siciliano e un piemontese con un sacco di dinamite.
Attorno alle tre di mattina i MAS del capitano di Corvetta Luigi Rizzo e il MAS di Giuseppe Aonzo stanno rientrando alla base dopo una missione di pattugliamento. Nella penombra vedono la colonna di fumo che esce dalle corazzate, fanno dietrofront e vanno a vedere scoprendo l’intera flotta austroungarica. Una persona sana di mente taglierebbe la corda per la schiacciante inferiorità numerica e di fuoco. I siciliani però son tipi orgogliosi tanto quanto i piemontesi sono affetti da senso del dovere patologico: Rizzo e Aonzo attaccano.
Piombano in mezzo alle navi nemiche come calabroni.
Gli austriaci aprono il fuoco, ma i MAS sono troppo veloci. Rizzo s’infila tra due siluranti della scorta, quelle lo puntano e lui preme la manetta a 12 nodi superandole e trovandosi il campo libero per la corazzata. A 300 metri sgancia entrambi i siluri e vira, mentre sulla fiancata della corazzata Santo Stefano si alzano due colonne d’acqua di otto metri. La torpediniera 76 della Kriegsmarine gli corre dietro sparando, ma Rizzo si muove a zig-zag e Gori sgancia due bombe antisommergibile. Dopo la prima esplosione la torpediniera cambia idea e rinuncia all’inseguimento.
Aonzo ha un approccio più nordico. Invece di caricare a testa bassa si mette a fare una gimcana tra le torpediniere, che non riescono a puntarlo né a sparare per non correre il rischio di colpire le proprie navi. Dopo aver superato l’ultima vede una finestra di tiro utile, ma anche i cannoni che lo puntano. Vira e sgancia i siluri a 450 metri, con un tiro rischioso. Il primo siluro la manca, il secondo la centra in pieno ma non esplode. Preme la manetta al massimo e riesce a seminare le torpediniere, raggiungendo Rizzo.
Arrivati alla base allertano tutti, e da Ancona decollano gli idrovolanti seguiti da altri aerei. Gli austriaci hanno perso l’effetto sorpresa e l’intero piano è andato a quel paese, ma non è quello il problema principale: è l’impatto psicologico.
L’affondamento della Santo Stefano ha dimostrato che l’Italia non è battuta, e che i MAS possono colpire impuniti. Gli austriaci sceglieranno di abbandonare ogni tentativo d’assalto e non faranno più azioni di guerra in mare, di fatto regalandoci il dominio dell’Adriatico. A terra, intanto, la notizia dell’impresa dei MAS gettò nello sconforto gli austriaci, che si aspettavano un ultimo colpo prima della vittoria, e tirò su il morale degli italiani al fronte, a casa e nel parlamento.
C’era ancora speranza.
E un fiume.
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