La legge, oltre a porre un ampia varietà di regole che – come ben sappiamo – disciplinano il matrimonio, prevede anche la cosiddetta promessa di matrimonio. Tuttavia, promettersi reciprocamente il futuro matrimonio, non impedisce che ambo i membri della coppia, o anche uno solo, ripensino in seguito alla correttezza e opportunità di quanto manifestato con la promessa citata. Possono insomma insorgere dubbi, preoccupazioni ed incertezze, che possono trovare fondamento sugli impegni economici futuri o sulle aspettative nei confronti di chi sarà il proprio consorte. Facciamo allora chiarezza e vediamo se davvero è ammesso il ripensamento promessa di matrimonio e, se sì, quali conseguenze potrebbe generare.
Promessa di matrimonio: cos’è e dove trova disciplina
In concreto, la promessa di matrimonio consiste in quella dichiarazione con la quale i nubendi – ovvero coloro che intendono sposarsi – innanzi all’ufficiale di stato civile, affermano liberamente e con spontaneità di voler contrarre futuro matrimonio. Va tuttavia subito rimarcato che da questa dichiarazione non scatta alcun obbligo giuridico alla celebrazione del rito nuziale. L’istituto in oggetto, pur di antiche origini, è tuttora presente nell’impianto del Codice Civile, dato che il nostro ordinamento si fonda sul matrimonio (art. 29 Costituzione); anzi spesso succede ancora che una coppia, al culmine del rapporto affettivo, decida per formalizzare la promessa di matrimonio, come a suggellare il patto di una vita in comune. Oggigiorno la promessa di matrimonio potrebbe intendersi come sinonimo di “fidanzamento ufficiale”, identificabile altresì con le pubblicazioni di matrimonio, ovvero quelle che per legge vanno fatte in Comune almeno 13 giorni prima della celebrazione del rito del matrimonio. In verità, si potrebbe pure pensare alla promessa formalizzata con atto di notaio, ma tale ipotesi è ormai molto più teorica che pratica.
Il Codice Civile tratta della promessa di matrimonio in tre soli articoli (articoli 79, 80 e 81), che peraltro non sono stati oggetto di vera e propria modifica o cambiamento – tranne il comma primo dell’art. 81 c.c. – dalla nota riforma del diritto di famiglia (legge n. 151 del 1975). Ciò in quanto il legislatore dell’epoca ritenne che le citate disposizioni, essendo elastiche e applicabili ad una estrema pluralità di situazioni, non avessero bisogno di revisioni, pur alla luce di usi e costumi assai mutati rispetto alla data della loro entrata in vigore (ricordiamo ad es. che soltanto nel 1970 il divorzio fu introdotto nel nostro paese).
Tale promessa è vincolante?
Come messo in luce da autorevole e vasta giurisprudenza, la promessa di matrimonio non impegna giuridicamente per il futuro, come invece fa un qualsiasi contratto (bancario, di locazione ecc.). Infatti, i giudici – tra cui la Cassazione – in più sentenze hanno fanno notare che, in base a quanto previsto nel Codice Civile sul tema, la promessa di matrimonio costituisce di per sè una libera e spontanea dichiarazione, che in quanto tale non obbliga né a contrarre matrimonio, né a compiere ciò che si fosse pattuito in caso di mancata celebrazione: tecnicamente, la promessa di matrimonio non ha quindi quelli che nel gergo del diritto civile, sono definiti “effetti obbligatori”. Insomma, la promessa di matrimonio non è un contratto e non comporta quindi di per sè obblighi vincolanti per i nubendi, e ciò indipendentemente dal fatto che venga redatta con atto pubblico o scrittura privata. Anzi, tale promessa non può mai essere coartata e non si può quindi essere costretti sotto minaccia o violenza a promettere alcunché, in considerazione del fatto che la decisione di sposarsi o di non sposarsi spetta alla sola volontà della persona. Anzi, su questo piano, l’art. 79 c.c. è piuttosto chiaro: “La promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo ne’ ad eseguire cio’ che si fosse convenuto per il caso di non adempimento“. Tale articolo insomma tiene ben presenti le conseguenze della scelta del matrimonio, sia sul piano personale, sia su quello economico, e pertanto garantisce e tutela la piena libertà dei membri della coppia nel dare o meno il consenso, fino al momento della celebrazione formale delle nozze, e nega anzi che dal mancato adempimento della promessa in oggetto – ovvero dal ripensamento – possano scaturire conseguenze patrimoniali differenti da quelle disciplinate, in modo tassativo, dagli artt. 80 e 81 c.c., che vedremo tra poco.
Quali conseguenze economiche possono sussistere?
Se è vero che dalla rottura del fidanzamento ufficiale non scaturiscono sanzioni o penali di alcun tipo, è però altrettanto vero che il Codice Civile non esclude tout court conseguenze di natura economica. Come detto infatti se la promessa in oggetto non obbliga per forza a convolare a nozze, tuttavia la mancata celebrazione del rito comporta il diritto – ribadito anche dalla Corte di Cassazione – di domandare – entro 12 mesi dalla data in cui s’è avuto il rifiuto o dal decesso di uno dei due promittenti – la restituzione dei doni e regali fatti in ragione della promessa di matrimonio (ad es. collane, braccialetti, anelli ecc.), ed a prescindere dai motivi che hanno condotto al ripensamento (art. 80 c.c.). La ragione di tale scelta del legislatore è da individuarsi nella volontà di eliminare tempestivamente ogni traccia di una relazione affettiva ormai venuta meno, tanto che è anche previsto che l’azione di restituzione può essere esercitata entro il termine decadenza di un anno.
Concludendo, l’art. 81 c.c. dispone un altro genere di conseguenze patrimoniali in caso di ripensamento. Infatti, se il fidanzamento ufficiale si rompe e ciò avviene senza “giusto motivo“, la legge consente la richiesta e l’ottenimento del risarcimento danni, ma per i soli costi sostenuti (ad es. spese per il banchetto, viaggio di nozze ecc.) o per i contratti sottoscritti in prospettiva del matrimonio, da parte del membro della coppia che ha effettuato l’esborso. Anche in questa ipotesi, la richiesta non è però proponibile dopo 12 mesi dal giorno della rottura della promessa.
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