Le statue sono diventate le nuove bambole voodoo
Ma ci permettono di litigare, quindi la loro funzione secondaria compensa l’inefficacia della primaria.
La folla è in subbuglio nel decidere se sarebbe più giusto togliere o meno una statua, sfregiata di recente sull’onda delle proteste negli Stati Uniti dove la morte di George Floyd costringe il mondo a gridare il razzismo di Trump e dell’America bianca. È un gran protestare, indignarsi, twittare; un continuo e onnipresente chiacchiericcio culminato – per la seconda volta – con una secchiata di vernice.
Alcuni dicono che è una protesta politica alla stregua delle palme in piazza Duomo, altro bla bla bla indignato culminato con un ragazzino che appicca il fuoco, la spengono e poi tutti in coda da Starbuck’s. In realtà ricorda di più la critica che fa Moni Ovadia in quel capolavoro di Train de vie: ebrei travestiti da nazisti che litigano tra loro (i tedeschi ci avrebbero trattati meglio!) e giù a darsi dei fascisti l’un l’altro.
A queste chiacchiere seguirà un’azione?
Perché spesso le chiacchiere si fanno per sostituire l’azione.
Forse ce la prendiamo coi nemici finti perché quelli veri fanno troppa paura o sono troppo grossi. Facciamo il processo ai morti perché hanno colpe oggi smaccatamente sbagliate e non ci possono querelare, mentre snobbiamo processi ben più a portata di mano che richiedono impegno politico, tempo, ricerche, fatica e poca dopamina da social.
Dal dopoguerra in poi i parlamenti sono stati eletti democraticamente; non c’è mai più stata alcuna dittatura – anche se viene evocata a ogni elezione – eppure la qualità della nostra classe dirigente è crollata assieme alla qualità della nostra vita, della nostra istruzione, del nostro potere d’acquisto e del nostro potere decisionale riguardo qualsiasi ingiustizia che ci circonda.
E l’abbiamo votato noi, uno dopo l’altro.
Allora forse guardiamo col binocolo le ingiustizie distanti solo per coprirci gli occhi davanti a quelle che abbiamo sotto i piedi. Forse diamo del razzista a una statua per non sentirci in colpa verso quelli che ci dormono sotto o stanno sulle panchine senza lavoro a vendere droga. Forse scriviamo tonitruanti editoriali e post indignatissimi sulle ingiustizie dalla polizia americana per non vedere che nel cantiere sottocasa crepano ogni giorno operai di colore di vent’anni per cui potremmo fare qualcosa.
Forse facciamo screenshot delle nostre risposte a Salvini per sentirci Bravi Cittadini Onesti mentre ad oggi nessuno sa quanti o dove sono i CPR e i CIE o cosa ci succede dentro, perché i giornalisti lì non possono entrare e a nessuno frega niente. Forse ci interessano più le condivisioni e il copyright dei meme, ci interessa dimostrare di essere i più – o i meno! – politicamente corretti del rione, piuttosto di fare qualcosa di concreto.
Un programma, un piano, un’idea o perdere tempo a trovare un candidato che le abbia. E ci sono, alcuni molto visibili.
Passiamo ore a parlare su Facebook e negli ultimi trent’anni non ci siamo presi un’ora per guardare il curriculum di chi mandiamo in parlamento a prendere decisioni, così ora apriamo pagine per rimpiangere una classe politica di ben altro spessore che abbiamo demolito noi. Frignamo che l’Europa ci umilia e abbiamo mandato a rappresentarci un disoccupato con la terza media. Forse il problema non è la statua, ma quello che ci raccontiamo di risolvere imbrattandola o pulendola.