Irpinia, il terremoto che cambiò l’Italia

Pubblicato il 24 Novembre 2010 alle 14:15 Autore: Giuseppe Ceglia
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A pochi mesi dall’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia, il trentennale del sisma in Irpinia è significativo.

Il 23 novembre 1980 cambiò per sempre il modo di sentirci italiani. Prima di questa funesta data non c’erano mai stati eventi che avessero contribuito a una spaccatura orizzontale così netta della nostra penisola. C’erano stati anni di grandi divisioni sociali, ma erano contrasti politici, ideologici, quasi mai geografici. Quasi mai si è messo il punto sulla diversità di vita che si conduceva al Nord rispetto al Sud, e viceversa.

[ad]Eppure il 23 novembre di trent’anni fa la moltitudine di volontari che dal settentrione – e non solo – scesero in Irpinia, intasando involontariamente tutte le strade e le vie di comunicazione (ancora non esisteva un organo di coordinamento come la Protezione Civile), si accorsero subito delle immani differenze tra la propria terra e quella del meridione.

Improvvisamente gli “angeli del terremoto” si resero conto dell’esistenza sotto la capitale di una popolazione di connazionali che viveva di stenti, la cui unica ricchezza era rappresentata dal maiale che consentiva di sfamare una famiglia per sei mesi. Non c’erano banche, industrie e persino strade degne di essere chiamate in tal modo. La mancanza di vie di comunicazione fu uno degli elementi che contribuì a far salire il computo dei morti a quello definitivo: 2914, cifra simile a quella causata dal terremoto più disastroso della storia che si verificò in Cile nel 1960 (magnitudo 9,5, tre punti in più di quello del 1980). A nulla valsero gli appelli televisivi di un disperato e indignato Pertini.

Non appena si cominciò a sentire il profumo delle lire statali, stanziate per la ricostruzione, i settentrionali si diedero il cambio. Furono rispediti a casa i giovani volontari, osteggiati dalle istituzioni locali con l’accusa di costituire un intralcio ai soccorsi, e scese in Irpinia un esercito di imprenditori e costruttori del Nord.

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In questo preciso istante ha inizio quello che passerà alla storia come il più grande spreco di soldi pubblici. Ad oggi la stima ha superato i 60.000 miliardi di lire. La disgrazia della popolazione offre un piatto ricco di occasioni a chi è al potere e a chi con esso è strettamente collegato. Camorra compresa. Non ci sarà più spazio per le lacrime, non una parola per chi ha perso famiglia, casa, lavoro, tutto. La speculazione e gli scandali sovrastano il dramma dell’individuo.

Vengono costruite in Irpinia centinaia di fabbriche con contributi statali. Promettono lavoro, e in cambio modificano per sempre la geografia di Campania e Basilicata, scavando gallerie, costruendo superstrade mostruose, e trasformando vaste zone collinari e montuose in ampie valli. Tutto avviene in un silenzio drammatico. Nessuno che si lamenti. Il meccanismo delle clientele è ben oliato.

Il familismo amorale, che ancora oggi attanaglia il Sud, è una delle cause dello scempio. Il padre di famiglia, pur di vedere il figlio sistemato in una fabbrica nuova di zecca (e ce ne sono tante), si rivolge ai tanti politici feudatari democristiani, che negli anni ottanta governano l’Italia, oltre alla Campania.

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