Università, una riforma-pasticcio
Le irrisolte questioni di metodo – e di merito – della riforma Gelmini
Si è iniziato a discutere della riforma dell’Università due anni orsono, e all’epoca tutti erano d’accordo: governo, opposizione, parti sociali, Confindustria, attori dell’Università. Quattro erano i principi fondamentali che avrebbero dovuto ispirare il nuovo disegno dell’Università: autonomia, responsabilità, valutazione e merito. Quella che è stata invece approvata pare essere una riforma che ha contraddetto clamorosamente le sue premesse e i suoi principi ispiratori e che, non a caso, ha alimentato uno scontro feroce tra maggioranza e opposizione in sede di approvazione finale.
[ad]La legge appare gravemente lesiva dell’autonomia degli atenei in quanto centralista ed eccessivamente prescrittiva su numerosi temi quali la composizione degli organi, di fatto disciplinata fin nei minimi dettagli; lo spazio lasciato agli statuti nell’applicazione dei criteri direttivi previsti dalla legge è ben poco. Nel dettare norme così circostanziate la riforma Gelmini “dimentica” le profonde diversità che caratterizzano le Università del nostro paese e, di conseguenza, la necessità che alcuni aspetti dell’organizzazione siano lasciati agli statuti delle singole Università, nel rispetto del principio di autonomia sancito dall’articolo 33 della Costituzione.
L’articolo 4 della legge poi, nell’istituire presso il Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, un Fondo per il merito volto a promuovere l’eccellenza e il merito fra gli studenti erogando premi di studio, buoni studio o finanziamenti, rimette la determinazione dei criteri e delle modalità di attuazione della norma, comprese le modalità di utilizzo del Fondo, a decreti ministeriali “di natura non regolamentare”, da adottarsi dopo aver sentito la Conferenza Stato-Regioni, luogo decisionale costituzionalmente deputato a gestire “il governo delle cose di Stato e Regioni”. A tale proposito, si noti che la sentenza della Corte costituzionale n. 308 del 2004, con riferimento ad un fondo analogo – quello per la garanzia del rimborso dei prestiti fiduciari per il finanziamento degli studi universitari dei capaci e meritevoli – ha chiarito che, attenendo il fondo alla promozione del diritto allo studio e alla materia dell’istruzione, materia di legislazione concorrente, la sua disciplina non può prescindere dal diretto coinvolgimento delle Regioni, nel rispetto di quanto sancito dall’articolo 117 della Costituzione. La stessa Corte ha dunque ritenuto costituzionalmente illegittime le norme riguardanti la gestione del relativo fondo in quanto riservavano ogni potere decisionale ad organi dello Stato, laddove invece tale disciplina di dettaglio avrebbe richiesto un coinvolgimento delle Regioni. Ugualmente, nel parere reso sulla legge in esame, la 1a Commissione della Camera dei Deputati ha affermato che “l’articolo 4, comma 3, riservando ogni potere decisionale ad organi dello Stato e assegnando alle regioni un ruolo meramente consultivo, non tiene adeguato conto dell’esigenza del coinvolgimento delle regioni”. Ci si chiede allora con quale ostinata ragione il governo abbia voluto continuare sulla strada di un Fondo per il merito completamente rimesso alla determinazione per opera di decreti ministeriali.
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