(il)legittimo impedimento?

riforma della Giustizia tribunale

Tutto quello che c’è da sapere sulla legge su cui la Corte si pronuncerà l’11 gennaio.

Tramontate, secondo le più recenti indiscrezioni di stampa[1], le ipotesi di un ulteriore rinvio, l’11 gennaio prossimo la Consulta si pronuncerà sulle questioni di legittimità costituzionale relative alla legge sul “legittimo impedimento”, sollevate dai giudici di Milano nell’ambito di uno dei processi che vedono imputato Silvio Berlusconi.

Nelle ultime settimane, i giornali hanno riportato fughe di notizie e anticipazioni circa l’orientamento di alcuni membri della Corte ed in particolare del giudice relatore, il prof. Sabino Cassese. La decisione del neoletto presidente Ugo De Siervo di rinviare l’udienza, originariamente prevista per il 14 dicembre, e quindi concomitante al voto sulle mozioni di sfiducia al Governo, ha suscitato reazioni contrastanti e gettato benzina sul fuoco dei pronostici.

Consapevoli della rilevanza politica della decisione della Corte, sulle cui conseguenze abbiamo avuto e ancora avremo modo di avanzare ipotesi, vogliamo offrire ai lettori di TP qualche informazione di carattere tecnico sulla decisione cui la Consulta e sulle sue possibili conseguenze sul piano giudiziario.

 

La legge

Il “legittimo impedimento” è stato introdotto dalla legge 7 aprile 2010, n. 51[2], con l’intenzione dichiarata di assicurare il “sereno esercizio delle funzioni di governo” una volta venuta meno la sospensione dei processi contro le più alte cariche dello Stato, prevista dal secondo “lodo Alfano”[3] ma dichiarata incostituzionale dalla Consulta (con sent. n. 262/2009), e in attesa di un futuro “lodo Alfano costituzionale”, più volte annunciato ma non ancora introdotto: vale a dire una legge costituzionale che riproduca il contenuto dei due precedenti “lodi”, corretto sulla base delle due pronunce di incostituzionalità, al fine di sospendere i processi penali nei confronti del Capo dello Stato, del presidente del Consiglio e dei presidenti delle due Camere.

Il legittimo impedimento nasce, così, come soluzione temporanea, destinata a restare in vigore solo fino  al subentro di una “legge  costituzionale  recante  la disciplina organica delle prerogative del  Presidente  del  Consiglio dei Ministri e dei Ministri, nonché della disciplina attuativa delle modalità di  partecipazione  degli  stessi  ai  processi  penali  e, comunque, non oltre diciotto mesi dalla data  di  entrata  in  vigore della presente legge, salvi i casi previsti  dall’articolo  96  della Costituzione[4], al fine di consentire al Presidente del  Consiglio  dei Ministri e ai Ministri il  sereno  svolgimento  delle  funzioni  loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge[5].

Detto altrimenti, le norme ora sottoposte al giudizio della Consulta “proteggono”, fino all’ottobre del 2011, il presidente del Consiglio e tutti i Ministri, nelle modalità e con i limiti che seguono.

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[ad]La legge integra ed interpreta l’art. 420-ter del codice di procedura penale, che disciplina, in via generale, l’ “impedimento a comparire dell’imputato o del difensore” stabilendo che, nell’ambito del processo penale, sia rinviata ogni udienza quando l’imputato non sia presente per “caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento”.

Il processo penale infatti, fatto salvo il caso della contumacia (ipotesi peculiare e – tra l’altro – al centro del noto “caso Cesare Battisti”), si deve svolgere in presenza dell’imputato e del suo difensore, per garantire il suo diritto di difesa. L’assenza dell’imputato all’udienza determina quindi il rinvio dell’udienza stessa, sempre che dipenda da cause eccezionali, non ascrivibili alla sua volontà, e quindi “legittime”. Ma a decidere è il giudice, il quale è chiamato a valutare liberamente la sussistenza di un “legittimo impedimento” dell’imputato.

La vigente “legge sul legittimo impedimento” dispone che “per il Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter c.p.p. […] il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti ed in particolare dagli artt. 5, 6 e 12 della l. n. 400/1988 […] dagli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 303/1999 […] dal regolamento interno del Consiglio dei Ministri […] dalle relative attività preparatorie e consequenziali nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo”. Con riferimento ai Ministri sono riportate previsioni analoghe. Semplificando, si può quindi affermare che qualunque impegno istituzionale, cioè in qualche modo collegato alle funzioni che il Presidente o i Ministri esercitano, costituisce legittimo impedimento a presenziare alle udienze. Non così, invece, gli impegni di partito o elettorali.

Se le previsioni si fermassero qui, si potrebbe parlare di una legge sostanzialmente interpretativa, ed il problema sarebbe stabilire in che misura essa sia in grado di vincolare il giudice, rendendo obbligatorio il rinvio. Infatti, secondo l’art. 420-ter del codice di procedura, non espressamente modificato, egli valuta “liberamente” gli impedimenti dell’imputato. La legge sul legittimo impedimento, però, prevede che “il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti, rinvi[i] il processo ad altra udienza”.

Il successivo comma dell’art. 1 prevede poi che “la Presidenza del Consiglio” possa attestare che “l’impedimento è continuativo”: in questo caso il giudice “rinvia” (obbligatoriamente?) il processo ad un’udienza successiva al periodo di impedimento attestato, che non può essere superiore a sei mesi. Si realizza così una sospensione del processo nel corso della quale il decorso della prescrizione resta sospeso (il che non avverrebbe nel caso di rinvio occasionale dell’udienza per legittimo impedimento).

Come si vede, la legge al vaglio della Consulta non è di agevole interpretazione. In particolare, essa non chiarisce in modo univoco due aspetti fondamentali: se il rinvio dell’udienza (o la sospensione del processo, nal caso di impedimento continuativo) sia automatico e obbligatorio per il giudice e se quest’ultimo possa sindacare la legittimità dell’impedimento addotto dall’imputato-presidente del Consiglio o Ministro.

Verosimilmente, è proprio su questa incertezza di fondo (e non sulla volontà di trovare una soluzione “pilatesca”) che si fonda l’ipotesi – ventilata dalla stampa – di una c.d.  “sentenza interpretativa di rigetto” della Corte, sulla quale torneremo in seguito.

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Le questioni di costituzionalità

Nel nostro ordinamento, i privati cittadini non possono adire la Corte Costituzionale perché giudichi la compatibilità di una legge con la Costituzione. Nel caso di specie (che rientra nell’ipotesi più comune) le questioni di costituzionalità sono state sollevate dal Tribunale di Milano, nell’ambito di uno dei processi che vedono imputato Silvio Berlusconi, su iniziativa della pubblica accusa. La Consulta sarà quindi chiamata a pronunciarsi su “quesiti” proposti dal Pubblico Ministero e già valutati dal collegio giudicante “non manifestamente infondati”.

Secondo i giudici milanesi la legge risulterebbe incompatibile con due articoli della Costituzione: il 3, che sancisce l’eguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge, e l’art. 138, che disciplina la revisione della Costituzione e l’adozione di leggi costituzionali.

In estrema sintesi, quindi, i dubbi espressi dalla magistratura sono i seguenti: in primo luogo, è possibile, in assoluto, introdurre un privilegio di questa natura per il presidente del Consiglio e i Ministri? In secondo luogo: non è forse necessario, per farlo, una legge costituzionale, così come avviene per le immunità e le altre forme di garanzia degli organi costituzionali?

 

L’udienza e la Corte

Secondo le informazioni pubblicate sul sito della Corte, il “legittimo impedimento” sarà la prima questione ad essere discussa nell’udienza pubblica dell’11 gennaio. A prendere la parola saranno, per Silvio Berlusconi, gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo. Per la Presidenza del Consiglio, che per legge interviene nei giudizi di costituzionalità rappresentata dell’Avvocatura dello Stato, gli avvocati dello Stato Michele Di Pace e Maurizio Borgo.

Il coinvolgimento dell’Avvocatura dello Stato ha suscitato, in questo come in casi simili, numerose polemiche. Infatti, gli avvocati dello Stato,  dipendenti pubblici stipendiati, appunto, dallo Stato,  prenderanno la parola in rappresentanza della Presidenza del Consiglio. Si è detto, quindi, che Silvio Berlusconi potrà contare su due “difese”: quella dei propri avvocati, che lo rappresentano in qualità di imputato nel processo di Milano, come tale interessato alla conservazione della legge, e  quella erariale, a spese dai contribuenti.

In realtà, a voler essere pignoli, le cose non stanno esattamente in questi termini. Innanzitutto, il giudizio riguarda una legge e quindi non vi sono, davanti alla Corte, né imputati, né difensori né accusatori. Le diverse parti che hanno un interesse nel giudizio, intervengono spontaneamente (ma non obbligatoriamente) per sostenere le loro tesi circa le questioni di costituzionalità sottoposte alla corte. In altri termini: Berlusconi non è, in questo caso, un imputato da difendere, ma un privato cittadino che ha interesse a dire la sua su di una legge che, “accidentalmente”, lo tutela. L’Avvocatura dello Stato, poi, non interviene a sostegno del presidente del Consiglio in carica, cioè di Silvio Berlusconi, né – peraltro – della Presidenza del Consiglio intesa come dicastero.

Nel nostro ordinamento, infatti, lo Stato partecipa ai processi in cui è coinvolto “in persona” del Ministro competente per materia e del presidente del Consiglio in alcuni casi particolari. In queste occasioni, esso è obbligatoriamente rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, un organismo incardinato – dal punto di vista amministrativo – nella presidenza del Consiglio, ma largamente autonomo. Nei giudizi di costituzionalità, la legge prevede che la Presidenza del Consiglio debba intervenire, senza però chiarirne il ruolo. Per prassi consolidata, l’Avvocatura “difende” la costituzionalità delle norme. Secondo gli studiosi, il suo ruolo non sarebbe quello di parte in senso tecnico, bensì deve rienersi assimilabile a quello che in altri ordinamenti ricopre una figura denominata Avvocato Generale, chiamata a fornire “il punto di vista dell’ordinamento” e quindi a sostenerne, con argomentazioni giuridiche, la coerenza. Senza dilungarsi eccessivamente, quindi, l’intervento della presidenza del Consiglio nel giudizio di costituzionalità costituisce un contributo, in termini di analisi giuridica, al giudizio della Corte e non la “difesa” di una persona, di una istituzione, o della stessa legge di cui si discute[6].

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[ad]Nel nostro caso, secondo quanto riferito dalla stampa, l’Avvocatura ha sostenuto, con una memoria depositata a fine dicembre, che la legge si limiti a specificare e tipizzare le ipotesi di legittimo impedimento già previste da una legge ordinaria (il codice di procedura penale): essa non richiederebbe, pertanto, il procedimento di cui all’art. 138 della Costituzione e non costituirebbe una violazione del principio di eguaglianza.

Il ruolo di giudice relatore, incaricato di studiare a fondo la questione sotto tutti i profili giuridici e di relazionare in proposito ai colleghi nell’udienza e nella successiva camera di consiglio, è stato assegnato al prof. Sabino Cassese, classe 1935, insigne studioso di diritto amministrativo, già ministro nel governo di Carlo Azeglio Ciampi e da questi nominato, in qualità di Presidente della Repubblica, membro della corte nel 2005.

I giudici costituzionali vengono abitualmente (e brutalmente) divisi, dalla stampa, sulla base del loro orientamento politico. Attualmente, dei 15 giudici, otto sono ritenuti “di centro-sinistra” e sette “di centro-destra”. Secondo le più recenti indiscrezioni[7], all’udienza dell’11 gennaio potrebbe non essere presente, per motivi di salute, la prof.ssa Maria Rita Saulle. Essendo quest’ultima ascritta al centro-sinistra, la Consulta si dividerebbe a metà tra i due “orientamenti” (la stampa dà per scontato, naturalmente, che un giudice “di centro-destra” voterebbe per salvare la legge e viceversa). In caso di spaccatura, sarà il presidente Ugo De Siervo ad avere il voto determinante.

 

 

Le possibili decisioni

Secondo le indiscrezioni giornalistiche, il prof. Cassese avrebbe già fornito agli altri componenti della Corte una corposa relazione di circa 40 pagine nella quale si prospettano tre soluzioni: la dichiarazione di incostituzionalità, il rigetto della questione, e la sentenza interpretativa di rigetto, cui si è già fatto cenno.

In effetti, queste sono le tre soluzioni possibili in qualunque giudizio di costituzionalità. Nel primo caso, la Corte dichiarerebbe la legge incompatibile con l’art. 3, l’art. 138 o entrambi. Dal giorno successivo alla decisione, essa non potrebbe più trovare applicazione e pertanto tornerebbe ad applicarsi la normale disciplina sul legittimo impedimento prevista per tutti gli imputati. I giudici sarebbero quindi chiamati a decidere volta per volta sulle istanze di rinvio proposte da Silvio Berlusconi.

Nel secondo caso, i giudici dichiarerebbero “infondate” le questioni proposte. Tecnicamente, ciò non significa (al contrario di quanto viene abitualmente sostenuto) che la legge abbia ricevuto una “patente” di costituzionalità, ma soltanto che essa non è incostituzionale sotto i profili sollevati dal giudice, il quale non potrà rimettere nuovamente la questione alla corte con le medesime argomentazioni. Nel caso di specie è però presumibile che siano state sollevate tutte le questioni possibili (difficile credere che sia stato trascurato qualche profilo di incostituzionalità, considerando anche la recente giurisprudenza della Corte sui due “lodi Alfano”, in cui sono state analizzate a fondo questioni simili).

La terza ipotesi, la sentenza interpretative di rigetto, è quello che farebbe più discutere. Molti hanno sostenuto, infatti, che la Corte sia orientata ad una soluzione “pilatesca”, per non essere accusata di aver deciso le sorti dell’attuale legislatura (ammesso che dalla decisione possa effettivamente derivare qualche conseguenza politica).

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[ad]Ci permettiamo di proporre una diversa interpretazione. Come si è già avuto modo di anticipare, la legge sul legittimo impedimento è – forse volutamente – ambigua. Si può sostenere che il giudice sia tenuto a rinviare le udienze nel caso in cui l’imputato-ministro attesti di avere un impegno istituzionale. Ma è astrattamente possibile anche il contrario: cioè che il giudice sia libero di valutare la legittimità dell’impedimento.

Nel nostro ordinamento, per consolidata giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale, i giudici sono tenuti a scegliere, tra le varie interpretazioni possibili di una norma, quella conforme alla Costituzione.

La Consulta può pertanto – e ciò accade con una certa frequenza – affermare che la questione di legittimità è infondata purchè la norma sia interpretata in un certo modo. Questo atteggiamento (da alcuni criticato) esprime un favor per il mantenimento in vigore della legge, ed è giustificato dal fatto che l’alternativa – cioè la dichiarazione di incostituzionalità – creerebbe un vuolo legislativo. La Corte non può “fare” le leggi, ma solo rimuovere le leggi incostituzionali. Di fronte ad una legge che risulterebbe incostituzionale se interpretata in un certo modo, ma non se interpretata in un altro, è quindi preferibile “salvarla”, suggerendo però al giudice in che modo interpretarla in modo conforme alla Costituzione (com’ è suo dovere fare).

Nel nostro caso, una sentenza interpretativa di rigetto avrebbe plausibilmente come conseguenza lo “svuotamento” della stessa legge. Chi ne sostiene la legittimità, ha sempre affermato che il giudice abbia l’obbligo di rinviare le udienze su richiesta dell’imputato. Se si affermasse, al contrario, che il giudice è libero di valutare gli elementi addotti, troverebbe applicazione, nei fatti, la medesima disciplina generale del codice di procedura. Peraltro, lo stesso codice prevede che la decisione in merito al rinvio dell’udienza sia assolutamente definitiva e non possa in alcun modo essere impugnata, né discussa. Di fronte ad un rifiuto, quindi, l’udienza si celebrerebbe senz’altro, anche se potrebbe ipotizzarsi (in teoria) un ricorso alla Corte Costituzionale da parte del Governo per “conflitto di attribuzioni” contro la decisione del Tribunale.

 

Le conseguenze

Cosa accadrà dopo la decisione della Consulta? I processi contro Berlusconi sono attualmente sospesi in attesa dalla decisione della Corte (e non, quindi, per effetto del legittimo impedimento). Se la legge sarà dichiarata incostituzionale, essi sono destinati a riprendere in tempi brevi. Anche se è prevedibile che il presidente del Consiglio chieda, in futuro, il rinvio delle udienze per impegni istituzionali (conserverebbe comunque la possibilità di farlo). Nelle altre ipotesi, i processi riprenderanno in un momento compreso tra l’inizio di febbraio e l’inizio di ottobre, quando la legge cesserà di avere efficacia per scadenza del termine di diciotto mesi, posto fin dall’origine alla “soluzione-ponte” del legittimo impedimento.

Difficile, quindi, immaginare conseguenze eclatanti sul piano giudiziario. La differenza tra le possibili decisioni della Corte Costituzionale si misura, sul piano degli effetti sui processi, in pochi mesi. Mesi che potrebbero divenire determinanti – forse – in caso di elezioni anticipate, che si tenessero, eventualmente, prima di ottobre.

Ma ciò dipenderà, ovviamente, dalla politica, e in primo luogo dalle decisioni del presidente-imputato.

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[1] Secondo La Repubblica (5 gennaio 2011), la Corte starebbe ancora valutando la possibilità di tenere l’udienza l’11 gennaio, ma rinviando la decisione a due giorni dopo, per discutere nel frattempo dell’ammissibilità dei tre quesiti referenari sul nucleare, l’acqua pubblica e – ancora –  il legittimo impedimento.

[2] Le diverse proposte di legge, poi confluite in un unico testo, sono state sottoscritte dai deputati Giuseppe ConsoloMichaela Biancofiore,  Isabella Bertolini, Enrico La LoggiaEnrico Costa, Matteo BrigandìMichele ViettiFederico Palomba. La Camera ha approvato il d.d.l. il 3 febbraio 2010 con il voto favorevole di PDL e Lega e l’astensione dell’UDC. Il successivo 10 marzo, il Senato lo ha approvato definitivamente con voto di fiducia. Il 7 aprile 2010 la legge è stata promulgata dal Capo dello Stato per entrare in vigore il successivo 9 aprile, giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

[3] La l. 23 luglio 2008, n. 124 ha sostituito la precedente l. 30 luglio 2003, n. 140, dichiarata incostituzionale con la sent. n. 24/2004. Tutte le pronunce della Consulta sono liberamente accessibili sul sito www.corte-costituzionale.it

[4] L’art. 96 disciplina i c.d. reati “funzionali”, cioè commessi nell’esercizio delle funzioni: in questo caso, i processi si tengono avanti al Tribunale dei Ministri, speciale collegio giudiziario composto da magistrati ordinari estratti a sorte, previa autorizzazione della Camera di appartenenza (dal Senato se il membro del Governo non è parlamentare). Il meccanismo dell’autorizzazione consente di bloccare i procedimenti penali qualora il possibile reato sia stato commesso, a giudizio del Parlamento, per tutelare gli interessi dello Stato, ed è una delle poche ipotesi di “giustizia politica” ancora previste nel nostro ordinamento dopo la riforma dell’immunità parlamentare seguita a Tangentopoli. Il legittimo impedimento si applica quindi solo ai reati non funzionali.

[5] Art. 2 , comma primo, della l. n. 51/2010.

[6] Per completezza  va precisato che, sul punto, le opinioni non sono affatto univoche: molti studiosi sostengono che la Presidenza del Consiglio intervenga nel giudizio a difesa dell’indirizzo politico del Governo. La questione non può essere approfondita che su testi scientifici, tra i quali consigliamo A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2008.

[7] La Repubblica, 5 gennaio 2011.