È un classico della moderna cultura progressista il voler interpretare la prostituzione come derivante da un bisogno economico e, di conseguenza, come uno stato temporaneo di necessità destinato a lasciare presto spazio ad altre più nobili aspirazioni di emancipazione personale ed economica. Ciò è sicuramente in parte vero, ma non può essere scambiato per un assoluto: diversamente, infatti, non si spiegherebbe come mai le protagoniste delle “notti di Arcore”, ospiti di Silvio Berlusconi, siano ragazze della mia età (giovani o giovanissime), cresciute in famiglie tutto sommato “normali”, educate dalla scuola pubblica italiana – dalla morale spesso manifestamente cattolica – e a volte persino laureate. Non ci tiriamo indietro davanti alla modernizzazione che chiama privato ciò che è pubblico e si distanzia dalla morale sessuale così come intesa dalla Chiesa; ma, allo stesso tempo, dobbiamo preoccuparci di rimarcare la differenza fra emancipazione femminile e sfruttamento di un padrone. Di questo si tratta: giustamente delle ragazze poco timide, attraverso la forza del proprio corpo, conquistano l’anfitrione e provano a sconfiggerlo quanto a ingordigia ed avidità di denaro. Bene, anzi benissimo, purché tutto questo non venga confuso con ciò per cui le donne hanno lottato e continuano a lottare, ieri come oggi!
[ad]La cultura di mercato, è innegabile, ha prodotto una svalutazione del pensiero e della volontà della donna, bella e di plastica, compiaciuta e pornografica nelle movenze e nelle parole che la rappresentano in televisione: in definitiva una donna declinata al maschile. E, attenzione, mi riferisco a quell’idea di maschile “forte”, quel machismo che “puzza di sudore”: altro è infatti l’uomo libero da modelli precostituiti che, similmente a certe donne, a cui difatti viene accostato, è oggi deriso e sbeffeggiato per un presunto eccesso di sensibilità, timidezza, apprensione per i compiti di cura. Così, nell’intento di riaffermare una lotta politica che sia femminile ma non solo, ho scelto di partecipare alla manifestazione di domenica scorsa. Una manifestazione che, vissuta in presa diretta, non ha nulla a che vedere con le tante descrizioni mistificatorie, pubblicate su diversi giornali nei giorni successivi, che vorrebbero trasformarne la semantica: quello che ho visto è stata una manifestazione politica, dove il politico non era la difesa della dignità femminile da parte di attempate bigotte avverse alla libertà sessuale di cui per tanti anni si è fatta paladina la sinistra. Certamente la manifestazione è scaturita da un appello promosso dal quotidiano l’Unità, ma non erano solo donne di sinistra quelle scese in piazza, era un movimento di donne ma anche uomini, un movimento “resuscitato” dal più bieco degli scandali che vedono protagonista il Presidente del Consiglio, e che difendeva la dignità di tutte le donne e, pertanto, la legittima autodeterminazione femminile calata nei più diversi stili di vita e modelli culturali, difendendola anche e soprattutto dall’accettazione di una cultura “porno-machista” che, trionfo per l’immaginario maschile, ha poco a che vedere con la lotta politica di donne emancipate che reclamano il loro diritto al governo. Da decenni, per non dire da sempre, le mobilitazioni femminili si confrontano con la complessità del dibattito critico interno e anche questa volta, nel ragionare attorno ad una certa modalità di selezione della rappresentanza femminile facente capo al “modello Minetti”, non sono mancate riflessioni del più diverso genere: ciò non ha impedito una partecipazione trasversale e a maggior ragione non ha limitatamente riguardato solo le donne politicamente orientate a sinistra. La manifestazione ha voluto essere una protesta pacifica capace di costituire argine democratico contro la deriva di una politica ormai sempre più lontana dal senso dell’istituzione così come inteso dai padri costituenti.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
[ad]Duecentomila a Roma, centomila a Milano e Torino, cinquantamila a Napoli, trentamila a Firenze, ventimila a Palermo e una folta partecipazione anche a Bergamo. In tutto sono state 230 le piazze italiane, più una trentina quelle straniere, la stime sulla partecipazione complessiva parlano di almeno un milione di persone: un successo, per alcuni inaspettato, che ha visto protagoniste donne non rassegnate, non disinteressate, non deleganti. Anche a fronte di cotanta partecipazione, è apparsa inspiegabile la mancata predisposizione di un apposito piano di mobilità, o quanto meno il blocco del traffico a manifestazione iniziata: da qui hanno preso spunto interrogazioni parlamentari al Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, da parte di alcuni senatori dell’Idv e del Pd. Ad ogni modo, dal palco di piazza del Popolo a Roma sono state spese parole da parte di molte: Susanna Camusso, Giulia Bongiono, Alessandra Bocchetti, Cristina Comencini, Francesca Izzo, Lunetta Savino, Isabella Ragonese, Suzanne Diku, Suor Eugenia Bonetti. Tutte donne che, seppur magari amanti di tacchi a spillo e sguardi seduttivi, per passione politica e coscienza di sé e dei propri diritti derisi, insieme ad uomini altrettanto indignati dal teatrino politico degli ultimi giorni, niente affatto intimiditi o infastiditi dal protagonismo femminile, hanno messo in scena il primo atto di una rivoluzione che trae fondamento e ragione dalla relazione dialettica fra libertà, uguaglianza e dignità. Bellissime le sensazioni. Tante donne insieme ad amiche, ma anche donne in solitaria che hanno abbandonato le timidezze, si sono guardate nel volto sorridendo l’una all’altra, con gli occhi pieni di una semplice e disarmante allegria che nasce dalla profonda sensazione di vivere qualcosa di veramente grande: un tuffo nel cuore! È dall’emozione gioiosa del riconoscimento reciproco di sé stesse, oltre gli scandali, oltre le compravendite, oltre la mercificazione del corpo delle donne, che si comprende come la definizione di “bigotte e moraliste” sia solo una pochezza frutto di uno spirito diametralmente opposto a quello di unità e condivisione che invece ha permeato la manifestazione tutta.
Il nodo della manifestazione, apparentemente difficile da comprendere per chi non vi ha partecipato, non era uno scontro fra moraliste e libertine, fra buone e cattive, fra puttane e suore. Compartecipi delle complessità propria delle più diverse vicende femminili del mondo moderno, sono stati richiamati donne e uomini ad un atto di indignazione verso quella che pare essere una scorciatoia ormai “istituzionalizzata” per l’accesso ad alcuni ruoli pubblici, persino di grande responsabilità: mi riferisco, tanto per essere chiari, alla pratica del “bunga bunga”. Si è trattato quindi di una manifestazione tesa alla riappropriazione da parte delle cittadine italiane di un diritto di parola sulla rappresentanza politica, un istituto del diritto vecchio come il mondo, che forse oggi può superare la crisi mettendo le vesti di quella parte del paese che è sempre stata tenuta a bada senza avere possibilità di prendere il sopravvento nella determinazione delle politiche di governo. Pressate dall’esigenza di difendere la propria dignità ad autodeterminarsi in prima persona e libere dagli schemi di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, cogliendo lo spirito del tempo, le donne si sono presentate in piazza come forza politica, come soggetto attivo nel governo del paese, pronte a dettare l’agenda politica senza deleghe silenziose di questo o quel partito. Fondamentale è a questo punto che tanta energia ed entusiasmo trovino la giusta strada di rappresentanza, un modo e un luogo che servano concretamente a costruire un progetto politico di riforma a partire dal rispetto per il femminile plurale: intanto l’8 marzo e poi, come maggioranza attiva non silente nella società, la chiamata a raccolta per gli Stati generali delle donne italiane. In conclusione, ricordando la colonna sonora della manifestazione – e non solo: we have the power!