Nel corso del Consiglio dei Ministri n° 127 del 28 febbraio 2011 il Governo ha approvato all’unanimità la relazione del Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sulla riforma costituzionale della giustizia, da definirsi in un CdM straordinario successivo ma presentata nelle linee guida generali.
Tra le proposte al vaglio dell’Esecutivo è prepotentemente tornato in voga, sospinto dalle recenti vicende di cronaca giudiziaria che hanno coinvolto il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il tema dell’immunità parlamentare, ed in particolare il ritorno dell’immunità parlamentare alla forma prevista nella Costituzione prima del 1993.
[ad]L’articolo 68 della Carta, infatti, è stato riformato dalla Legge Costituzionale 3 del 29 ottobre 1993, a seguito delle vere e proprie sollevazioni popolari avutesi nella prima parte di quell’anno dopo che il Parlamento aveva tentato di bloccare le indagini su Bettino Craxi da parte della magistratura.
In un gioco di corsi e ricorsi storici, molti dei protagonisti della politica contemporanea erano lì, in quei mesi, ad approvare a furor di popolo una riforma costituzionale in tempi record. C’era Giorgio Napolitano, Presidente della Camera, a scandire i lavori; c’era Pierferdinando Casini come relatore della riforma; c’erano D’Alema, Fini, Veltroni; e c’erano anche membri dell’attuale maggioranza di governo come Maroni, Bossi, La Russa, Gasparri.
Con maggioranze bulgare alla Camera e al Senato la legge passò spedita al vaglio della doppia lettura, l’articolo 68 della Costituzione cambiò e l’immunità parlamentare non fu più la stessa.
Il concetto di immunità parlamentare è presente nell’ordinamento giuridico di pressoché tutte le moderne democrazie, e tenta di conciliare l’obbligatorietà dell’azione penale, pilastro fondante del principio fondamentale dell’eguaglianza dinanzi alla legge, con l’indipendenza del potere politico da quello giudiziario e la tutela della libertà di espressione dei rappresentanti del popolo.
Tra le varie tipologie di immunità, quella parlamentare si contraddistingueva per essere assoluta, ovvero indipendente dal reato commesso; extrafunzionale, riguardando solo la durata della carica; e processuale, in quanto non si nega lo stato di reato dell’eventuale crimine commesso dal parlamentare, ma solo la possibilità da parte dello Stato di esercitare il proprio diritto di coercizione.
L’articolo 68 della Costituzione, così come concepito dai padri costituenti, recitava infatti:
I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.
Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile.
Il primo comma, che di per sé pare già costituire una forma totale di immunità, pur limitata all’azione parlamentare, avrebbe in realtà una funzione importantissima di tutela dell’eletto: un parlamentare non può subire gli effetti penali di una sua decisione in Aula. Quale parlamentare voterebbe, ad esempio, una missione internazionale nelle aree di guerra del mondo se sapesse di poter essere accusato per omicidio dai parenti delle eventuali vittime? Questa forma di immunità, anche se ovviamente passibile di degenerazioni (se alzare i limiti di legge di sostanze tossiche incrementa l’insorgenza di tumori, il parlamentare non è perseguibile per la sua decisione), è quindi necessaria per far sì che i rappresentanti dello Stato possano prendere le migliori decisioni senza preoccuparsi degli effetti sul piano personale. Questo aspetto dell’immunità viene chiamato “insindacabilità”, e ricopre l’intera attività parlamentare anche dopo la cessazione dalla carica.
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[ad]Il secondo ed il terzo comma si occupano invece dell’immunità parlamentare vera e propria, quella processuale. Salvo il caso della flagranza di reato, un parlamentare non poteva essere imputato, perquisito o arrestato a meno di un’autorizzazione votata dalla Camera di appartenenza.
L’autorizzazione a procedere di fatto però consentiva un’estensione arbitraria del diritto all’insindacabilità, dal momento che il Parlamento negli anni arrivò ad abusare di questa opportunità, rifiutando sistematicamente le autorizzazioni a procedere tacciandole come interferenze del potere giudiziario in quello legislativo.
Questo fino alla rivolta popolare seguita allo scoppio di Mani Pulite e all’enormità del rifiuto opposto dalla Camera alle istanze della magistratura nel caso di Bettino Craxi.
La versione attuale dell’articolo 68 della Costituzione, valida dal 1993, afferma invece:
I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.
Come si evince dal primo comma, il diritto all’insindacabilità è stato addirittura rafforzato dalla modifica: il passaggio da “non possono essere perseguiti” a “non possono essere chiamati a rispondere” di fatto generalizza ed estende la guarentigia di cui godono i parlamentari, laddove la prima formulazione poteva essere interpretata come una restrizione all’area prettamente penalistica.
Le vere modifiche all’articolo si trovano però al secondo ed al terzo comma. L’immunità processuale, come si può vedere, non è stata soppressa, ma edulcorata. Scompare la formula “nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale”, quindi attualmente i parlamentari possono essere sottoposti a processo anche senza autorizzazione della Camera di appartenenza, ma tali autorizzazioni permangono per molte attività accessorie vitali in fase di raccolta prove come perquisizioni o intercettazioni.
In realtà, è importante osservare come tramite legge ordinaria alcune parti dell’immunità parlamentare siano state via via ricostituite nel tempo: l’esempio forse più significativo è il Decreto Legge 535 dell’8 settembre 1994 – poi decaduto – toglieva al giudice, per metterlo nelle mani delle Camere, il potere di stabilire quali fatti ricadessero o meno sotto l’ombrello dell’insindacabilità, lasciando al potere giudiziario solo la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzioni alla Consulta.
Altrettanto importante, nel febbraio 1996, fu l’estensione della necessità dell’autorizzazione a procedere anche per l’utilizzo in sede processuale delle intercettazioni indirette, ovvero delle parole dei parlamentari emerse casualmente durante le inercettazioni di altre utenze.
Malgrado questo, la modifica principale all’articolo 68 della Costituzione regge: un parlamentare è oggi processabile in maniera analoga a quella di un qualsiasi altro cittadino.
Ed è proprio questo punto che il Governo vuole cambiare, per tornare al passato. Per impedire che un parlamentare, purché coperto da una solida maggioranza in Aula, possa essere processato per tutta la durata della sua vita politica.
Un ritorno al passato incomprensibile sotto il profilo della necessità giuridica, una riforma inutile in un Paese dove le priorità, restando in tema di giustizia, dovrebbero essere invece la durata dei processi unita alla certezza della sentenza e dell’applicazione della pena.
Ma sempre più le necessità e le priorità dell’Italia sono diventate coincidenti con quelle del cittadino Silvio Berlusconi, e le scadenze che attendono il premier nel 2011 (processi Mills, Mediatrade e Rubygate) lasciano pochi dubbi su quale possa essere il reale fuoco che anima la furia riformatrice del Governo.
Matteo Patané
(Blog dell’autore: Città Democratica)