Le preoccupazioni del Quirinale sulla procedura con cui si è approvato il milleproroghe
Quasi all’esatta scadenza dei 60 giorni previsti dalla Costituzione – articolo 77, comma 3 – il disegno di legge di conversione del decreto c.d. milleproroghe (più esattamente Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie) arriva in terza lettura al Senato per l’approvazione finale. Ciò a seguito della presentazione di un nuovo maxiemendamento che, unito alla richiesta di voto di fiducia, è stato presentato dal Governo alla Camera dei Deputati, immediatamente dopo l’invio di una lettera del Presidente della Repubblica Napolitano ai Presidenti delle Camere e al Presidente del Consiglio (22 febbraio 2011). Stando a quanto riportato nella lettera, il Capo dello Stato è stato indotto a sottoporre all’attenzione del Governo e del Parlamento alcune considerazione, al fine di “evitare che un decreto-legge concernente essenzialmente la proroga di alcuni termini si trasformi sostanzialmente in una sorta di nuova legge finanziaria dai contenuti più disparati” (si veda “Una piccola finanziaria in arrivo“). Nella lettera si è trattato anzitutto dei “tempi” del procedimento legislativo: il disegno di legge di conversione infatti è stato presentato dal Governo al Senato il 29 dicembre 2010, assegnato alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Bilancio il 7 gennaio 2011 ed esaminato in sede referente fino all’11 febbraio, con l’approvazione di 104 emendamenti; poi è iniziato l’esame in Assemblea, esame che si è concluso mercoledì 16 febbraio con l’approvazione del maxiemendamento presentato dal Governo, che ha riprodotto il testo delle Commissioni con l’aggiunta di numerose altre disposizioni, e su cui è stata posta la questione di fiducia. In sostanza, il solo esame del testo in prima lettura ha consumato 50 dei 60 giorni tassativamente previsti dalla Costituzione per la conversione in legge dei decreti-legge (art. 77, comma 3 Cost.).
[ad]Come ha tecnicamente e correttamente notato il Presidente della Repubblica, il testo su cui la Camera si apprestava a votare era estremamente ampio ed eterogeneo: il testo originario del decreto-legge, costituito da 4 articoli (di cui il terzo relativo alla copertura finanziaria e il quarto all’entrata in vigore) e 25 commi, è “ingrassato” di ben 5 articoli e 196 commi a seguito delle modifiche apportate dalle Commissioni del Senato e dal Governo, con il successivo maxiemendamento. Questo dato formale, valutato alla stregua di un aumento di peso della normazione, di una crescita del contenuto sostanziale del provvedimento, costituisce un indicatore utile ai fini della misurazione del quantum giuridico prodotto nell’arco di 60 giorni, nell’ambito di un procedimento costruito per definizione a fronte di casi di straordinaria necessità ed urgenza (art. 77, comma 2 della Costituzione). Se si considera che il maxiemendamento interamente sostitutivo, presentato dal Governo alla Camera ed approvato sabato scorso dal Senato in terza lettura, ha inciso solo minimamente sul dato formale appena citato (si è trattato di 2 modifiche e 7 soppressioni che portano il conteggio definitivo dei commi del milleproroghe a 189 rispetto ai 196 licenziati da Palazzo Madama), ci sembra opportuno confrontarsi con la ormai nota metafora del Presidente del Consiglio Berlusconi, secondo cui le iniziative legislative proposte dal Governo, simili a “puledri di razza”, verrebbero poi trasformate, attraverso il lavoro parlamentare, in “ippopotami”. È lo stesso prodotto del Governo che, infatti, contiene all’incirca 103 nuove materie rispetto a quelle previste nel decreto legge originario: questo modo di procedere si pone in contrasto con i principi sanciti dall’articolo 77 della Costituzione e dall’articolo 15, commi 1 e 3, della legge n. 400 del 1988, recepiti dalle stesse norme dei regolamenti parlamentari. Se durante il procedimento di conversione del decreto d’urgenza il dato formale contenuto nell’atto cresce sostanzialmente, è allora possibile intuire come difficilmente si tratti di misure di immediata applicazione, dal contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo – sebbene, nel caso di specie, già il titolo investisse materie di per sé ampie (materia tributaria e sostegno alle imprese e alle famiglie).
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[ad]L’inserimento nei decreti-legge di disposizioni non strettamente attinenti ai loro contenuti, eterogenee e spesso prive dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, elude il vaglio preventivo spettante al Presidente della Repubblica in sede di emanazione dei decreti legge: il Presidente, infatti, dopo aver emanato un decreto con un certo contenuto, si trova nella condizione di dover promulgare, magari a ridosso della scadenza dei 60 giorni previsti dalla Costituzione (come in questo caso), un testo completamente diverso, trasformato e decisamente più corposo. È chiaro che una procedura di tal fatta quasi “preclude” la possibilità di un rinvio presidenziale dal momento che a quel punto diventa preminente la considerazione circa la decadenza del decreto stesso con effetto retroattivo, come se il decreto non fosse stato mai emanato. Sebbene il Parlamento possa stabilire per legge di far salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto decaduto per decorrenza dei termini di conversione, s’intuisce come ciò comporti una cattiva qualità della legislazione, oltre che gravi problemi quanto a certezza del diritto. Ad ogni modo, nella lettera del Presidente della Repubblica si può leggere anche della degenerazione del procedimento di conversione dei decreti legge che li vede “ingrassare” a dismisura nell’arco di 60 giorni, laddove si sottolinea come l’eterogeneità e l’ampiezza delle materie non consentano a tutte le Commissioni competenti di svolgere l’esame referente richiesto dall’articolo 72, comma 1 della Costituzione. Si tratta quindi di una violazione del principio istruttorio che di fatto realizza una pesante compressione del ruolo del Parlamento.
La prassi degenerativa del procedimento di decretazione d’urgenza, paragonabile a quella che fu la “reiterazione” per frequenza dei casi e l’imponenza delle conseguenze sul piano giuridico, e di cui il mille proroghe è solo un esempio, sembra quasi configurarsi alla stregua di una nuova e diversa forma di iniziativa legislativa governativa, di fatto inemendabile ed evasiva rispetto alla funzione di indirizzo e controllo propria dell’organo parlamentare. Indice di ciò è pure la decisione di porre la questione di fiducia, ovvero un solo voto di approvazione o respingimento, sul secondo maxiemendamento interamente sostitutivo del decreto che, sebbene successivo alla lettera di Napolitano, non pare aver significativamente ridotto la mole del provvedimento e l’entità delle disposizioni illegittimamente inserite nel procedimento di conversione. Se la funzione del Parlamento si è trovata così svilita, la discussione ridotta al minimo e la possibilità di votare emendamenti da parte dell’assemblea completamente azzerata, si noti che la decisione governativa di porre la questione di fiducia non è scevra da considerevoli conseguenze anche con riguardo all’espressione plurale e democratica interna alla maggioranza stessa: tra gli altri, ammutoliti dal grido “o con noi o contro di noi” sono stati infatti gli amici campani del Pdl per il mancato blocco delle ruspe, gli alleati della Lega per il fallito arresto della “tagliola ammazza precari” ed i responsabili Scilipoti e Romano per quanto concerne le restrizioni sui rimborsi dovuti dalle banche ai cittadini a causa del c.d. anatocismo (ovvero la capitalizzazione degli interessi su un capitale: in parole povere il calcolo degli interessi sugli interessi).
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[ad]Infine, superato anche l’ultimo passaggio formale, la conversione del decreto milleproroghe è stata pubblicata sul supplemento ordinario n. 53 della «Gazzetta Ufficiale» n. 47 del 26 febbraio. Dopo il via libera definitivo di palazzo Madama, che ha approvato sabato il provvedimento con 159 voti favorevoli, 126 contrari e 2 astenuti, il testo è stato firmato dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ed il mileproroghe è oggi legge (la numero 10 del 2011, entrata in vigore da domenica 27 febbraio). Degno di nota è il comunicato del Presidente della Repubblica con cui si prende atto “dell’impegno assunto dal Governo e dai Presidenti dei gruppi parlamentari di attenersi, d’ora in avanti, al criterio di una sostanziale inemendabilità dei decreti-legge. Si tratta di una affermazione di grande rilevanza istituzionale che vale – insieme alla sentenza n. 360 del 1996 con la quale la Corte costituzionale pose fine alla reiterazione dei decreti-legge non convertiti nei termini tassativamente previsti – a ricondurre la decretazione d’urgenza nell’ambito proprio di una fonte normativa straordinaria ed eccezionale, nel rispetto dell’equilibrio tra i poteri e delle competenze del Parlamento, organo titolare in via ordinaria della funzione legislativa, da esercitare nei modi e nei tempi stabiliti dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari”. Prassi degenerative come quella appena descritta con riferimento al decreto millepororoghe, infatti, potrebbero compromettere la stessa credibilità del nostro sistema parlamentare: condizionato da gravi distorsioni delle procedure legislative e, pertanto, impossibilitato a dispiegare pienamente la sua funzione, il Parlamento, rischia di perdere prestigio e consenso tra i cittadini e, in definitiva, di cadere in una spirale delegittimante utile solo ad alimentare il già diffuso senso di sfiducia per la rappresentanza politica e le istituzioni dello Stato democratico che aleggia nel paese.