Adesso basta. È quello che ha detto il tribunale di Mostar in merito all’odiosa questione “due scuole sotto lo stesso tetto” (dvije škole pod jednim krovom). Il tribunale della capitale erzegovese, che ha giurisdizione su tutto il cantone dell’Erzegovina-Narenta, ha infatti stabilito che il fenomeno rappresenta una violazione della legge sul divieto di discriminazione.
La sentenza dei giudici è arrivata lo scorso 27 aprile, stabilendo altresì che il Ministero dell’istruzione, della scienza, della cultura e dello sport del suddetto cantone ha tempo fino al primo di settembre 2012 per rimuovere questo “sistema scolastico”, che di fatto segrega gli alunni delle scuole elementari sulla base dell’appartenenza nazionale in due ali distinte degli edifici scolastici.
[ad]Questo singolare sistema scolastico, che ricorda tanto l’apartheid sudafricano, è stato istituito alla fine della guerra e tuttora affligge 34 scuole delle municipalità di 3 dei 10 cantoni in cui è divisa l’amministrazione della federazione “croato-musulmana”. Questi 3 cantoni (Bosnia centrale; Zenica-Doboj; e appunto dell’Erzegovina-Narenta) sono quelli in cui si concentra la maggior parte dei croato-bosniaci e in cui non esiste di fatto una maggioranza nazionale. Con la scusa di difendere la propria cultura dal pericolo di assimilazione nazionale, i rappresentanti politici della comunità croata in primis (i due HDZ ), ma anche di quella bosgnacca, hanno perseverato nel difendere ad oltranza la necessità di avere scuole diverse per “bambini diversi”, fino al caso estremo della scuola di Čapljina, dove nemmeno a ricreazione è consentito il minimo contatto tra bimbi cattolici e musulmani.
Quello che suona ancora più assurdo è pensare che molti bosgnacchi a loro volta credano che questo sistema sia la garanzia del rispetto della cultura nazionale in quanto, per esempio, alcune di queste 34 scuole sono passate al sistema “due in uno” per ovviare alla monopolizzazione scolastica adottata dalla comunità democratica croata alla fine della guerra costituendo, come a Jajce, scuole elementari in cui si studiava esclusivamente la storia, la geografia e la letteratura di un paese che di fatto non è quello di appartenenza (per non dire addirittura paese straniero).
Creare una segregazione nazionale non può essere considerato come uno stadio d’arrivo ma piuttosto come uno dei punti centrali da cui far partire necessarie riforme. Facendo della scuola il luogo in cui un nome e un cognome di diversa “estrazione nazionale” non costituiscano una barriera, ma piuttosto la sede educativa per antonomasia dove apprendere i principi della convivenza e della condivisione. Sembrano parole scontate ma nella Bosnia odierna nulla è dato per scontato.
La sentenza di Mostar impone infatti anche al resto della Bosnia Erzegovina il dovere morale di cambiare in questa direzione, scolarizzando una cultura nazionale che non scada nel nazionalismo e che non sia altro che lo specchio della società bosniaca tutta.
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[ad]Oltretutto, l’ottica europea nella quale gravita o vorrebbe gravitare Sarajevo impone quei cambiamenti strutturali nell’ingrovigliato apparato statale bosniaco erzegovese – dai cantoni alle entità, fino ad arrivare allo stato centrale – da cui il sistema d’istruzione non si esenta.
Come si potrebbe permettere d’altronde di avere altri muri, altre linee di demarcazione, altre emarginazioni in un’Europa unita? Anche questa volta la risposta verrà data giuridicamente, come a Mostar, affinchè una singola sentenza sia presa ad esempio e ispiri un processo di evoluzione che liberi la Bosnia dai fantasmi e ne esalti le particolarità culturali.
Dal canto suo, l’Europa, dopo aver dimostrato 20 anni fa di voler essere unita partendo dalla distruzione di un muro che divideva la bella e ricca Berlino, dovrà dimostrare le proprie capacità anche nel rimuovere un recinto che divide il cortile di una scuola nella brutta e povera Čapljina.
di Giorgio Fruscione