Dossier: la riforma della Giustizia

riforma della Giustizia tribunale

Prime considerazioni sulla riforma illustrata dal Governo in materia di Giustizia

Il governo parla di una riforma che pone al centro il cittadino e che, simbolicamente, fa tornare in equilibrio la bilancia della giustizia che da tanto tempo, e più precisamente da Tangentopoli, pende eccessivamente dalla parte dell’accusa. Questo è infatti il logo scelto per la campagna referendaria[1] che, dati i tempi delle procedure di revisione costituzionale, si preannuncia a ridosso dell’altra campagna elettorale del 2013. Infatti, per quanto riguarda i tempi della annunciata riforma costituzionale della giustizia, il Presidente del Consiglio e il Presidente del Senato Schifani – sembra infatti che l’iter inizierà da Palazzo Madama – sostengono che, con le due commissioni competenti Affari costituzionali e Giustizia al lavoro insieme, e facendo slittare tutti gli altri argomenti in agenda (compreso il ddl di riforma della legge elettorale) già ad aprile il testo potrà arrivare alla Camera, di modo che se ne concluda il primo passaggio entro quest’estate. In questo modo si spera che i 18 articoli volti a riscrivere il titolo IV della Carta costituzionale possano essere approvati in prima lettura entro la fine dell’anno sia alla Camera che al Senato. Sembra chiaro che da un lato slitta l’ipotesi di rimpasto in seno al Governo, e si spera che le amministrative di maggio non complichino i tempi del procedimento; dall’altro, sicuramente si tiene molto impegnato il Parlamento con un iter legislativo che sarà lungo, fino al punto da coincidere quasi con la campagna elettorale 2013, probabilmente l’ennesima pro o contro Berlusconi e scarsamente “politica”.

[ad]Ad ogni modo, il Premier ha parlato di riforma epocale” e forse in ciò non ha tutti i torti, dal momento che mai prima d’ora si è messo mano in maniera così drastica ai princìpi del sistema giudiziario così come definito dai padri costituenti, quando ancora vivo nella memoria di moltissimi era il ricordo della denegata giustizia e dei tribunali speciali del fascismo. Una riforma scaturita all’indomani del caso Ruby ma che forse non è troppo vincolata a queste vicende, quanto piuttosto ad un più vasto progetto politico-giudiziario: con tale revisione costituzionale si vogliono coronare i 18 anni di carriera politica di uno degli imprenditori più potenti del Paese, e il suo contenuto giuridico-politico esprime bene il senso dell’avventura di Berlusconi, iniziata proprio nel 1994 quando, appena “sceso in campo” e divenuto capo del governo, ricevette dopo pochi mesi il primo avviso di garanzia da Antonio Di Pietro. Si noti che, a sigillo di una serie di disposizioni previste dall’annunciata riforma della giustizia, compare anche un articolo 17 secondo cui: “I principi contenuti nella presente legge costituzionale non si applicano ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore”. In questo modo, nelle intenzioni del Governo, si tiene lontana la prevedibile polemica da parte del centrosinistra sulle leggi ad personam di cui Berlusconi sarebbe usualmente artefice al fine di “liberarsi” dai processi in cui è imputato. Anche se è vero che, finché Berlusconi rimarrà capo del Governo e al tempo stesso imputato in diversi processi, difficilmente può immaginarsi la sua “terzietà” rispetto a questo progetto di riforma.

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[ad]Il progetto di revisione costituzionale affronta il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, già trattato al tempo della Bicamerale presieduta da D’Alema tra il 1996 e il 1998. Esso prevede anzitutto la riforma del tanto criticato CSM, che verrà appunto diviso in due parti. In particolare, per quanto concerne la composizione del CSM “requirente”, la riforma prevede che esso si occuperà della nuova categoria (separata) dei pubblici ministeri: sarà composto per una metà da membri “laici” nominati dal Parlamento e per l’altra da giudici togati eletti nelle categorie di riferimento. Si prevede inoltre che la vicepresidenza spetti ad uno dei membri laici, e che sia il Capo dello Stato a presiedere. Ancora, si stabilisce la regola di avere un membro di diritto per parte, ovvero il primo Presidente di Cassazione per il CSM giudicante e il Pg della suprema Corte nel CSM requirente. La durata in carica sarà di quattro anni. Per quanto riguarda il sistema di voto, si presume che il voto del vicepresidente varrà doppio in seno al plenum. Con ciò, a detta del Presidente del Consiglio, si costruirebbe una riforma che realizza pienamente i princìpi del giusto processo, affacciatisi nel 1999 con la riforma dell’articolo 111 della Costituzione e che, di fatto, sono rimasti inapplicati a fronte della mancata separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero.

Il progetto di riforma non si ferma qui, ma tocca diversi profili fondamentali del processo penale: dalla inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado, alla ridistribuzione dei poteri di iniziativa investigativa, all’introduzione del concetto di responsabilità personale per i magistrati che sbagliano. In merito a quest’ultimo punto, ad esempio, si noti che la definizione specifica di “colpa” professionale del magistrato ancora non esiste e che questo aspetto, così come altri 9 previsti nel progetto di riforma costituzionale (incluso quello relativo alla Corte disciplinare chiamata a giudicare il togato che sbaglia) dovranno essere regolamentati da 11 leggi attuative di rango ordinario.

Interessante è la parte che riguarda l’attribuzione di maggiori poteri investigativi alla polizia giudiziaria: se è vero che tale riforma ha come obiettivo ultimo quello di ristabilire la parità tra accusa e difesa, a favore di tutti cittadini che come tali vivono anche nel e del sistema giudiziario, non sembra facile spiegare come si giustifichi una maggiore confusione fra i poteri giudiziario e legislativo. Prevedere che nel caso di “emergenze sociali” il legislatore possa indicare una scala di priorità per le attività di indagine, appare un passo indietro rispetto al principio basilare di ogni democrazia, ovvero quello della separazione dei poteri che tende a definirli, e perciò a limitarli, in funzione di una maggiore garanzia dei diritti inderogabili di ogni persona. Il dato essenziale pare essere quello per cui si svincolano di fatto le indagini di polizia giudiziaria dalle disposizioni dei magistrati inquirenti, e si sottopongono gli istituti di autogoverno a una forte iniezione di politica: mancano così i “checks and balances”, i meccanismi di equilibrio tra poteri dello Stato, e c’è un potere legislativo che sovrasta il giudiziario. In tale contesto poi, vale la pena di ricordare che dalla prassi parlamentare degli ultimi anni è nata una sorta di confusione tra chi è legislatore e chi è esecutore: oggi chi ha la maggioranza “vince” su tutti e non c’è opposizione che tenga perché il principio che si tende a far valere interpreta la sovranità popolare non in senso costituzionale, come esercizio del potere “nelle forme e nei limiti della Costituzione”[2], ma in senso assoluto, come se il criterio numerico della maggioranza facesse da solo “democrazia”. È certo poi che dell’obbligatorietà dell’azione penale non si debba fare un tabù: se nelle procure italiane oggi tale regola viene osservata, sarà bene valutarlo e discuterne alla luce di quei numerosi fascicoli che si accumulano sulle scrivanie dei tribunali e che, in qualche modo e con qualche ordine, devono pur essere smaltiti.

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[ad]Ancora degno di nota è l’articolo 16 che riguarda la “responsabilità civile” dei magistrati; al momento esso recita così: “I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari di altri funzionari e dipendenti dello Stato. La legge espressamente disciplina la responsabilità civile dei magistrati…”. Ci si domanda dunque se ad oggi, a fronte di gravi errori commessi da giudici, il cittadino sia lasciato a se stesso; in realtà non è così, esiste infatti una responsabilità del giudice di tipo indiretto che può essere fatta valere da parte del cittadino intentando causa allo Stato, il quale a sua volta cita eventualmente in giudizio il giudice. Stando a quanto riportato dai giornali e dall’Anm, ad oggi le richieste di risarcimento per colpa o ingiusta detenzione sono oltre 1000 l’anno, senza tener conto di quelle intentate ai sensi della legge Pinto sulla ragionevole durata dei processi, per cui giacevano alla Corte europea 475 casi ancora a dicembre 2010. Inoltre, come sottolineato dal presidente dell’Anm Luca Palamara, anche a fronte del dato secondo cui nell’ultimo decennio solo l’1,3% dei magistrati è stato colpito da rimozioni per gravi illeciti disciplinari, la riforma della giustizia, “colpendo sulla responsabilità civile altro non fa che tentare di mettere in ginocchio l’autonomia dei magistrati”.

A tale riguardo, è bene ricordare che nel 1987 si tenne un referendum (il c.d. “referendum Tortora”), su iniziativa di Radicali, Pli e Psi, volto ad ottenere che il giudice che avesse arrecato, con dolo o colpa grave, un danno al cittadino fosse tenuto a risponderne sul piano civile: si trattava, in sostanza, di abrogare gli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile, che consentivano al magistrato di non rispondere in sede civile dei suoi errori, come invece succede per qualunque altro funzionario dello Stato. Oltre l’80% dei cittadini votò in modo favorevole all’abrogazione. Subito dopo l’abrogazione dei citati articoli del codice di procedura civile disposta a seguito del referendum, però, il Parlamento approvò la cosiddetta “legge Vassalli”[3], votata da Pci, Psi e Dc, che stravolse il risultato del medesimo referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato. La «legge Vassalli», infatti, prevede che il cittadino che abbia subito un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere a esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato che, a quel punto, potrà essere chiamato a rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio.

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[ad]In sostanza, dai profili appena evidenziati si capisce come, al netto delle dovute critiche, sia importante scindere il tema della giustizia dalle vicende giudiziarie che riguardano Berlusconi. Trattare di argomenti come separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, responsabilità civile dei giudici, significa non avere paura di entrare nel merito delle cose e, allontanandosi dagli ormai classici quanto noiosi schemi di “lotta” politica tra maggioranza e opposizione, affrontare temi oggetto da tempo di riflessione giuridica, secondo i propri orientamenti e le proprie sensibilità, con uno spirito costruttivo e, nel senso più alto del termine, “compromissorio”.

 


 


[1] Eventuale referendum confermativo senza quorum di partecipazione previsto dall’art. 138, comma 3 della Costituzione.

[2] Art. 1, Costituzione.

[3] Legge 13 aprile 1988, n. 117.