Primo maggio a Sarajevo, buon (non) lavoro
[ad]Non va dimenticato il fattore storico. L’eredità di 45 anni di socialismo ha alimentato, paradossalmente ma logicamente, la debolezza delle organizzazioni sindacali. Nella Jugoslavia socialista, il ruolo di rappresentante degli interessi dei lavoratori era rivestito dal partito – che peraltro coincideva con il governo del paese -, relegando il sindacato a funzioni meramente amministrative. Ma è ben più grave l’eredità dei 20 anni successivi, quelli del conflitto e del post-conflitto. Oggi le organizzazioni sindacali sono separate tra le due entità, come logica conseguenza della divisione istituzionale che assegna a RS e FBiH la sovranità esclusiva delle politiche economiche e del lavoro.
Dunque, le piazze bosniache resteranno vuote? Non è detto. C’è sempre la possibilità che iniziative spontanee, pur partendo da istanze particolari e interessi settoriali, possano uscire dai propri ristretti confini e invitino lavoratori, studenti e semplici cittadini ad “aprire gli occhi”, sfidando l’indifferenza dell’opinione pubblica e l’immobilismo della classe dirigente. Forse questa strana primavera bosniaca ne ha già dato qualche esempio. Prima, gli ex-combattenti (ed ex-nemici) appartenenti alle tre diverse comunità della Bosnia-Erzegovina si sono mobilitati insieme, accampandosi davanti al Parlamento per difendere le loro pensioni che il governo nazionale intendeva tagliare. Poi, gli studenti hanno preso l’iniziativa contro la censura e l’autoritarismo nella scuola e nell’università. Resta da vedere se seguiranno altri esempi di questa primavera. E soprattutto se qualcuno sarà disposto ad imitarli.
di Alfredo Sasso