Gli italiani scoprono che il travaglismo non è questo granché
Eppure l’idea di fare un’informazione basata su capri espiatori, gogne, illazioni e giochini di parole sembrava tanto una buona idea.
Di recente, il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio ha fatto un infelice gioco di parole con il nome del sindaco di Bergamo, storpiando Giorgio Gori in Giorgio Covid. La folla s’indigna, perché le immagini dei camion militari che portano via le bare sono ancora fresche, le dieci pagine di necrologi pure, ed è difficile dimenticare la voce spezzata del deputato che guaisce “in poche settimane Bergamo sta perdendo i suoi nonni” e a testa china ringrazia di cuore chi non si ferma mai «perché i bergamaschi non sono abituati a restare con le mani in mano», e si trovano a decidere “chi vive e chi muore come in guerra”.
“Giorgio Covid”.
Quello che stranisce è l’indignazione.
Quand’è che Travaglio è stato diverso? Nel 2001 era legittimo, normale e divertente assistere a processi mediatici, gogne di piazza, liste di proscrizione tutte con al centro Berlusconi, che la gente adorava chiamare “B.” come fosse l’innominabile. Era proprio la corrente letteraria nazionale fin dal 1994. Era normale deridere una persona perché bassa, impotente, calva. Quando un vecchio di 73 anni si è fatto rompere la faccia ci sanguinava davanti e noi ridevamo, dicevamo “se l’è cercata”, “doveva mirare meglio”.
Travaglio su Berlusconi ha fatto un monologo di due ore.
Due. Ore.
E la gente andava a vederlo, pagava il biglietto apposta, tanto che ne fece un altro di un’ora e tre quarti. Venivano stampati centinaia di libri su di lui, scritti migliaia di articoli, inchieste fuffa ante clickbait, non importava. E guai a chiunque provasse a dire che la cosa era diventata irrazionale al limite del fanatismo religioso: veniva subito tacciato di berlusconismo e bullizzato. È anche grazie a questo simpatico filmato che i The Jackal sono diventati famosi. Adesso saltano fuori strane storie che però vengono tenute prudentemente in cantina, anche perché nel frattempo è successo qualcosa.
Gli studenti si sono diplomati.
Ovvero noi lettori abbiamo applicato la retorica e il metodo fattoquotidianista alla nostra vita di tutti i giorni, trasformando i social e i giornali in porcili dove la gente s’ammazza tra ingiurie, illazioni e diffamazioni che stanno rischiando di portare il sistema giuridico al collasso, mentre i giornali sono passati dal dare opinioni pacate, fatti e inchieste al fornire presunti colpevoli dati per acclarati.
Del resto hai voglia a spiegare che non puoi dare della zoc*ola a una tizia dopo che per anni i giornali l’hanno fatto ridendo, arrivando a perversioni voyeuristiche dove il cattivo gusto oltrepassa il processo Pacciani. Hai voglia a spiegare che non si può bullizzare qualcuno per il suo aspetto o per i suoi impicci fisici, dopo che per anni hai parlato di “Psiconano”, “cavalier Pompetta”, “Calvo col trapianto”. Hai voglia a parlare di innocente fino a prova contraria quando tu sui palchi facevi processi sommari e condanne. Tanti auguri a spiegare che l’onere della prova spetta all’accusatore, quando dalle pagine dei giornali facevi l’esatto contrario.
Ma dopo una decina d’anni che lo applichiamo e l’abbiamo visto applicare su di noi, all’improvviso si comincia a parlare di sensibilità, di cyberbullismo, di molestie, tutte cose che nel 2000 venivano prese a ridere. Siamo insomma il popolo che non impara alcunché finché non lo prova ritratto da Shakespeare e messo in bocca a Coriolano.